È stato veramente brutto stamattina trovare – come primi due articoli del quotidiano online – due femminicidi.
Uccidere la propria compagna che è incinta di sei mesi è ascrivibile a un doppio omicidio: ammazzi lei e ammazzi il bimbo che porta in grembo.
Ho provato, essendo madre, la meravigliosa sensazione dei primi calcetti nella pancia: dentro il tuo corpo un’altra vita scalcia, si muove, ti dice: esisto, ci sono. Una sensazione bellissima.
Se è già inammissibile e orrendo chiedersi come si fa a uccidere la propria compagna, è ancora più osceno e inammissibile chiedersi come si fa a uccidere una donna incinta.
Non ci sono più parole per questi uomini malevoli malati di narcisismo patologico. Che passino tutta la vita in carcere a riflettere, se riescono.
Quando tu mi amavi/ ribolliva ogni cellula del mio corpo come mare in tempesta/ e battevano i tam tam del mio piccolo cuore attendendo l’alba. Non dormivo non mangiavo; ero un arco con la freccia tesa eternamente. Il tuo pensarmi terrorizzava il mio pensiero. Avevo paura nostalgia dei nostri baci e tensione infinita. Mi acquattavo come un gatto tra le tue braccia la domenica pomeriggio/ rubandoti al quotidiano dove tu eri altro da me e da noi. Non mi bastavano i brandelli di minuti.
Le nuvole arrivano e passano. Le nuvole oscurano il cielo e tempesta e c’è buio. Poi si apre uno squarcio di azzurro e torna un raggio di sole.
Occorre pensare a questo passaggio e movimento e non pensare che sia permanente il buio. Occorre vedere il passaggio e il movimento e l’impermanenza. Nulla resta uguale a prima. Tutto muta.
Ci sono momenti di buio e tempesta. Verrà la luce ancora. Attendere e accettare. Attendere e sperare.
Queste piante grasse le ho prese come primo dono alla mia nuova casa. Evidentemente hanno trovato un loro angolino di pace perché stanno benissimo nonostante neve gelo e pioggia.
Mi affascina la loro geometria
I colori e le forme
Questa crea una bava bianca che copre come un velo
Sono talmente a loro agio che hanno fatto un sacco di figlioletti
Ogni tanto mi arrampico sul muretto per ammirarle e salutarle.
L’uomo non parlava. La guardava mentre lei raccontava, spiegava e chiedeva. Un pezzo di pane, una carezza, un sorriso.
L’uomo di pietra si animava solo con gli estranei. Allora nel suo corpo litico scorreva il sangue e la sua bocca si apriva. Parlava del tempo, delle novità che sorgevano nel piccolo borgo, del suo cane, del sindaco e del sindacato. Un fiume di parole rompeva gli argini della sua bocca incrostata di ruggine e polvere depositata nei secoli di silenzio.
Poi tornava da lei e si richiudeva nel suo sarcofago. Restava lì protetto come in un sarcofago. Muto. Morto.
Per questioni di privacy la foto è stata lavorata con un effetto, comunque il poster è relativo a una fotografia fatta con Reflex Leica. Nei tempi descritti.
Nel tempo mi hanno fatto diverse fotografie. Quelle che reputo migliori mi sono state fatte con una macchina fotografica Leica. Il mio lui di allora mi vedeva bellissima e io ero, di riflesso, bellissima. Si era nel tempo dell’innamoramento. Tempo magnifico in cui tutto vibra e ha senso sapore e colore diverso. Vivido.
Mi fotografava sempre. Sulla passerella di un lago mentre facevo uno schizzo su un blocco, distesa sull’erba o seduta sul tavolo nel parco il giorno dei tam tam. Se sfoglio le immagini fotografiche ricordo ogni istante.
Quando un uomo ama fotografa. Ama immortalare la sua bella. Eternizzarla.
Le vedo al lago le coppie: la ragazza si mette appoggiata allo steccato con lo sfondo turchese, sorride e lui scatta.
Non ho una immagine fotografica con il mio gatto in braccio. Una foto che mi ritrae con il mio animale. Ad agosto Edo compie tre anni. Quindi da almeno tre anni non ho un uomo che mi ama.
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