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Parole

Comunicazione

Ho conosciuto il mio ex compagno a un corso di comunicazione: era il relatore. Ero in piena burrasca esistenziale. Come mi era già capitato anche in quel periodo, ero oggetto di attenzione da parte di due uomini. È più ardita la lotta se ci sono due galletti: l’oggetto del contendere diventa più ambito.

Comunque il corso mi ha insegnato molto sulla comunicazione. Ho imparato a decifrare il significato sotteso dei messaggi, anche del silenzio.

La comunicazione ha un andamento circolare: l’emittente invia un messaggio, il ricevente risponde. Il messaggio si invia tramite canali. In questo momento sto inviando un messaggio a voi: occhi che mi leggete. Chi fa commenti risponde e chiude il cerchio.

Altri canali oggi in voga sono WhatsApp e i social. Se io scrivo un messaggio su WhatsApp ad amici normalmente ricevo una risposta in tempi stretti: il canale comunicativo è veloce, immediato. Lo hanno capito anche le persone di ottant’anni.

Se parlo al telefono e spiego, argomento, comunico mi attendo una reazione, un commento, una risposta. Se ottengo solo silenzio silenzio silenzio: c’è sicuramente qualcosa che non va. A meno che ci siano rumori o problemi di linea, qualcosa non va nel ricevente. Rispondere con il silenzio è quantomeno maleducato. Rompe il flusso.

Anche rispondere deviando il discorso – su un altro piano e tema – relativamente a quanto detto dall’emittente è un modo di deviare e non prendere in considerazione quanto detto. Far finta di non capire, fare lo struzzo, è dei pavidi. Chi è forte non ha timore ad argomentare, rispondere, esporre il proprio punto di vista. Dire.

A me piace molto comunicare.

E a voi? Siete aperti al confronto, alla conversazione, alla discussione? Penso di sì, considerato che scrivete in un sito. Scrivere è già condividere, comunicare. Scrivere è già esporsi.

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Sogno

Lo smartphone nel sogno #simbolo#sogno


Nei sogni di questo millennio appare un oggetto simbolo che prima non c’era: lo smartphone, il cellulare. Si rompe, lo perdiamo, non lo troviamo.
Quando è presente nei miei sogni significa quasi sempre: problemi di comunicazione.
Non posso, non riesco, non mi è possibile parlare con una persona a cui tengo.
C’è quello che nella teoria della comunicazione si chiama: rumore.
Riuscireste a farvi capire in un vortice di folla che vi risucchia?
Come ho già scritto per me comunicare è davvero fondamentale. Io ora sto comunicando con voi. Nella mia giornata amo comunicare con chi mi sta vicino. Mi piace esternare e dire quello che provo e che sento, quello che desidero o mi manca, quello che mi piace o no. Nel contempo mi piace ascoltare il punto di vista dell’altro. Mi piace conversare. Mettere a confronto punti di vista diversi, sempre nel massimo rispetto.
Quindi se ultimamente mi capita sempre più spesso di sognare che non trovo – o ho perso – il cellulare, e non so come raggiungere una persona per dire, significa che ci sono disturbi comunicativi. Significa che a me manca la possibilità di dire.
Questi sogni normalmente sono ansiogeni.
Teniamo conto che non sono una di quelle donne che continuano a parlare parlare parlare con voci talvolta stridule.
Parlo poco. Ma quando parlo desidero davvero essere ascoltata. Se comunico una cosa per me rilevante, desidero che la persona a cui arriva il messaggio, lo riceva. Lo riceva davvero. Non superficialmente. Cioè lo capisca. E mi risponda.
Se manca risposta, il mio inconscio produce sogni in cui sparisce il mio smartphone. Non lo trovo. Più.
A questo nuovo simbolo onirico, va aggiunto un episodio. Ieri per la prima volta mentre salivo in auto mi è caduto lo smartphone per terra. L’ho raccolto e messo in borsa. Solo a casa mi sono resa conto di una lieve incrinatura che corre nella parte superiore dello schermo come una ferita.
Strano no? Non per me che credo fermamente  a questo principio: ogni cosa che accade ha un senso. La piccola ferita che segna lo schermo del mio cellulare segna – al contempo – una ferita nella comunicazione con il mio partner. 

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Amore

Che fare?

Che fare? Al di là dei manuali di psicoterapia e filosofia, o quelli pragmatici americani che ti spiegano con dieci regolette come agire per ottenere il successo l’amore il potere il denaro e ormai, visto la moda, un sorriso smagliante…

Che fare quando tutto è già stato detto e ripetuto e l’interlocutore appare immobile, un grande gigantesco corpo di Gulliver legato dai Lillipuziani?

Non serve il teatro panico, lo choc, un elettrochoc, non serve un megafono un microfono un palco la luce diretta sparata negli occhi o mettere dei manifesti e tappezzare il suo quartiere. Non serve dire dire ripetere chiarire argomentare spiegare esemplificare perché lui è sordo e immobile. E ti dice: Hai ragione. E poi non cambia nulla. La ragione si dà ai matti. Tu lo sai che non serve a nulla. E fai a pezzettini la ragione. Dovresti tagliare. Tagliare di netto la corda che ti lega e volare via. Lontano. Lontano. Lui non appartiene alla schiera degli uomini che non tollerano di essere lasciati e ti inseguono con l’ascia, il coltello, la pistola e pum: tu muori. Lui, semplicemente, ti riprende. Ti dice: Hai ragione. E tu allora gli ri-credi. Ri-credi che tutto davvero può cambiare. O almeno un frammento un pezzettino un angolo di sole e di cielo blu. Sarà nuovo questo nostro tempo e lui saprà farmi sentire amata desiderata voluta scelta. Farà un gesto nuovo.

Quest’anno mi regalerà un uovo pasquale e, dentro, ci sarà una bellissima scatolina e io romperò l’uovo e prenderò con gratitudine la bellissima scatolina e la aprirò, pregustando la sorpresa, e dentro, dentro il velluto rosso della scatolina troverò un bigliettino e allora lo aprirò col cuore che batte finché gli occhi vedranno e leggeranno la scritta minuta e calligrafica, scritta con inchiostro blu: HAI RAGIONE.

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Alla ricerca del nulla

Ieri ho avuto il piacere di pranzare in un luogo dove il tempo era fermo e quieto. La stradina che portava all’agriturismo era un nastro tra i boschi. Il parcheggio era pieno: quindi il ristorante funzionava, segnalato anche dal camino fumante. Siamo entrati e la sala era calda e antica, rustica. Altre tavolate ospitavano allegre compagnie. La ragazza è arrivata dopo dieci minuti a prendere l’ordinazione, dopo aver deposto sul tavolo una brocca d’acqua e un cestino di pane. Il pane era nero e squisito: in bocca si esaltavano i profumi e le consistenze di diversi chicchi. Noci, anice, pinoli.

Poi è arrivato il cibo. Mai ho mangiato uno spezzatino di cervo così buono: i pezzetti di carne si scioglievano in bocca, accompagnati ed esaltati dai funghi porcini. Il vino che abbiamo ordinato era ottimo.

A fine pasto, accanto al calore del camino, ho chiesto alla ragazza dove compravano quel pane squisito. Mi ha risposto che lo facevano loro.

Dopo pochi minuti è tornata con un sacchetto: – Omaggio del cuoco, ha detto. C’erano dentro cinque panini neri.

Così quando è sbucato dalla sua tana odorosa il cuoco e mi ha guardata sorridendo l’ho ringraziato di cuore per il prezioso dono. Si è avvicinato a spiegarmi gli ingredienti e la lavorazione del loro pane. Poi ha iniziato a parlare del tempo lento che a loro piace avere e donare. Della inutile fretta e nervosismo che, purtroppo, notano anche in periodo vacanziero, da parte dei villeggianti che passano a pranzare o cenare. Tutto deve essere consumato velocemente. Anche le passeggiate: è importante arrivare in cima per dire: sono arrivato in cima, non fare meno tragitto per fermarsi a guardare e vedere.

L’aneddoto più curioso raccontato dal cuoco in questa amabile conversazione del dopo pranzo è stato: Un giorno avevamo la sala piena ed è entrato un signore sui sessanta anni con lo smartphone in mano, il capo chino sul suo apparecchio che si muoveva nella sala in modo piuttosto agitato. Alla domanda cosa desiderasse, ha risposto che ” era alla ricerca di un Pokémon”.

É così che qualcuno, alla ricerca di un Pokemon, non trova nulla e si perde il meglio. 

Inutile dire che lì nessuno prende il cellulare in mano mentre si mangia. Chi va da loro sceglie l’antica abitudine di mangiare buon cibo, accanto a un camino acceso, facendo conversazione e guardandosi in faccia. 

Vecchie usanze che, in questo folle tempo di iperconnessioneeterna qualcuno ancora apprezza.

Inserisco il link di questo filmato che trovo dica più di tante parole l’enorme solitudine che ci stiamo scavando attorno con l’uso spropositato compulsivo e eccessivo dello smartphone.

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Che meraviglia

Che meraviglia parlare con lui aprire il tuo cuore come un carciofo con tutte le spine sul gambo facendo molta attenzione. Scegliere con cura ogni termine e parola. Per non ferire e non ferirsi. Fare molta fatica a dire con molta franchezza e calma quello che non va e quello che va. Tra scogli e pietre dire. Che una casa si costruisce mattone dopo mattone finché si arriva al tetto. Le travi sono poste e ogni mattina al termine del percorso vediamo che lo spazio è sempre più compiuto coperto rifinito. Ore e ore di lavoro quotidiano.

Che meraviglia raccontare questa metafora e far capire, cercare di far capire che in un rapporto è così che si costruisce, giorno dopo giorno, aggiungendo non togliendo. Nonostante la fatica nonostante la differenza nonostante gli ostacoli e il tempo che muta: sole pioggia o grandine.

Che meraviglia spiegare le vele del tuo cuore per arieggiare e volare. Alzarsi un poco da terra per avere una panoramica.

Parlare con voce calma. Là tra gli scogli e l’acqua. Per produrre un movimento. Un sommovimento. Uno scuotimento. Come quando si butta un sasso e si vedono i cerchi concentrici.

Che meraviglia dopo tutto questo vedere che lui non dice niente. Non sceglie nulla. Non allunga neppure un braccio per calmarti le onde dell’ansia.

Nulla. Niente. Come se tu non avessi detto.

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A proposito di comunicazione

Io amo comunicare. Io adoro parlare, discutere, argomentare, confidare. Io so ascoltare. Penso di saper accogliere storie, pezzi di vita, aneddoti e pianti o risate di amiche o amici. Credo molto nel confronto. 

Tanto per dire: il mio precedente fidanzato l’ho conosciuto a un corso di comunicazione: era il relatore. 

Transit mi ha scritto, nell’articolo precedente, che il silenzio delle donne gli ricorda visivamente quelle imbambolate bambole con gli occhioni aperti al centro del letto che si usavano nel tempo che fu. 

È vero: molte case sono piene di donne che tengono in vita il rapporto perché stanno zitte, mute: guardano vedono tacciono. Donne fragili, impaurite, dipendenti ancora oggi da padri padroni o mariti prepotenti.

MA è pur vero che ci sono donne che, come me, amano talmente il confronto, la comunicazione che alla fine esagerano. Nel senso che non sanno tacere. 

Quando una donna deve tacere? Semplicemente quando non ha senso parlare. La comunicazione è un processo circolare: emittente, destinatario, invio del messaggio, ricezione, risposta. Se non c’è risposta che senso ha continuare a parlare?

Voce di uno che grida nel deserto. 

Se, poniamo una donna ha già posto diverse volte ponti comunicativi, ha già esposto diversi interrogativi, ha già steso panni argomentativi, ha già cucito stracci interlocutivi… e non c’è stata risposta contro deduzione argomentazione discussione feedback assenso o dissenso… solo piatto silenzio, che si parla a fare? 
Quando tutto è stato detto, spiegato, chiarito… e il vostro lui non ha raccolto niente: che si parla a fare? Quando si sono usati tutti i canali comunicativi: parole scritte, registrate, vis à vis, messaggi vocali, e mail, lettere calligrafiche, bigliettini… e il vostro lui non modifica di una virgola il suo comportamento, non prende atto di una virgola di quelle quattro piccole cose che gli avete chiesto: che si parla a fare? 
Per questo ho deciso di tacere per dieci giorni. Per vedere se si modifica qualcosa. In me. Nel frattempo ho comunicato con voi. Chi vuole sapere come va il mio test, esperimento, gioco: può seguire gli aggiornamenti che posto quotidianamente sul post precedente. 

Ogni giorno. Voi capite: ho bisogno di comunicare. 

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Provarmi nel silenzio

Ho deciso di educarmi a tacere. Non qui. Non attraverso la parola scritta: qui ho un volto neutro e grandi ali. 

Ho deciso di educarmi a vedere e tacere. Non posso fare a meno di vedere: non ho bende agli occhi. Ma posso stringere un nastro sulla bocca, un nastro blu, di seta, leggero. Così non potrò dire. Così starò muta. 

Ho deciso di darmi un tempo di silenzio. Facciamo dieci giorni. Non appartenendo alla schiera dei santoni indiani, degli asceti che semplicemente stanno anche immobili su colonne o a terra, non mi sarà facile tacere. 

Vedere e tacere. Nulla chiedere, non sottolineare le incoerenze le imperfezioni le sbavature che vedo nell’altro. Ogni cosa è già stata detta, ogni preghiera richiesta osservazione domanda è già stata fatta. A che serve ripetere? Come il maestro zen che, dopo le stupide domande dell’allievo gli prende il capo e, con un movimento fulmineo, gli mette la testa sott’acqua perché capisca non con le parole, ma con l’esperienza l’importanza della vita, del respiro, dell’aria… così io farò. 

Mi asterrò volontariamente da ogni parola per dieci giorni. Non con tutti, logicamente. Solo con lui, la persona che non ascolta, non comprende, e sbadiglia quando gli spiego parlo chiedo commento comunico.

Non sarà facile per me tacere. Ma voglio comunque provare. E vedere l’effetto che fa in me e fuori di me. 

Poi vi racconterò.  
PRIMO GIORNO

Non è stato semplice tacere. Ma è solo il primo giorno e c’è lo stimolo della prova, del gioco, del test. 

In un momento critico ( avrei preso a schiaffoni ) non dire nulla è stato davvero ostico. Non dire nulla e mantenere un clima pacato. Perché, si sa: la comunicazione non verbale, mimica, gestuale è talvolta più potente di una frase sprezzante. 

Quindi tacere e mantenere un atmosfera calma, ariosa, tranquilla come se l’altro non ci avesse offeso. 

Vediamo come andrà il secondo giorno.

SECONDO GIORNO

Anche oggi sono riuscita a tacere, a far scivolare lentamente ogni possibilità di attrito e replica nel nulla, nel silenzio. È una dura disciplina perché scatta immediata la solita modalità di reazione. La persona mi sembra stupita del mio arrendevole silenzio. Vedrò di stupire anche domani. Stasera chiuderò la giornata con coerenza. Non parlare significa accettare che l’altro si prenda in modo assolutamente autonomo la responsabilità di ogni suo gesto e scelta. Non farò la mamma. Non farò l’offesa. Ho notato che stando zitta è come se spostassi il fuoco dell’attenzione dall’altro su di me. Sono lieta di pensare per dieci giorni solo a me. Dimenticarmi del piccolo che piange ( il piccolo, logicamente, è già adulto da diversi anni ).

TERZO GIORNO

Oggi la prova è davvero dura. Lui si è appena comportato con assoluta mancanza di empatia e connessione. Come ho da poco scritto a Elena, mi sarebbe così semplice far capire in che situazione mi trovo, portando esempi. Subito la gravità della situazione sarebbe evidente. 

Una persona che ama comunicare non sceglie la strada opposta senza ragione. Vi dico soltanto che se non fossi in questa situazione di imposto silenzio, mezz’ora fa avrei detto, urlato, ripetuto per mezz’ora. Le stesse cose già dette ripetute scritte sussurrate urlate. Mi annoia la noia, scrivevo sull’altro sito. Mi annoia ripetere. E poi: a che serve se l’altro è immodificabile? 

Sono solo le 15. Vedrò di tener duro fino a stasera. Oggi è finora la prova più difficile perché il suo comportamento di poc’anzi avrebbe tirato i nervi anche a un santo. 

QUARTO GIORNO

Ho fatto questi schizzi:

Accidenti. Li ho sull’iPad e sono lontana da casa. Studierò il modo di caricarli qui, sullo smartphone. 

Appena possibile li condividerò: a volte un disegno grafico spiega più di mille parole.

QUINTO GIORNO 

Non mi ero resa conto che qui, in quello che pensavo il mio sito gratuito, vengono messi annunci pubblicitari. Almeno in Blogger te lo chiedono, se li vuoi. Va beh.

Ecco gli schizzi:

La comunicazione è un processo circolare. Per circolare il messaggio parte da un emittente, giunge al destinatario che risponde con un messaggio. E viceversa.

La comunicazione quando non è disturbata da un rumore esterno o interno ha un ritmo. 

Io dico qualcosa e tu mi rispondi. O viceversa. Si può rispondere anche con il linguaggio gestuale, o con quei mugugnini o versetti che mantengono il contatto con chi sta parlando ( funzione fàtica ). L’importante è mantenere un ritmo, al di là delle normali differenze. Ci sono persone che sono logorroiche, in tal caso la linea del loro intervento sarebbe molto lunga. Ci sono persone più concise. 

Al di là della lunghezza del dire, se c’è una buona comunicazione tra due individui lo schema potrebbe essere questo, con le dovute pause variazioni e alterazioni. 

SETTE GIORNI FA

Sette giorni fa scrivevo: Provarmi nel silenzio. Il test, l’esperimento è riuscito solo in parte. Ieri ho rotto il silenzio. 

A cosa mi è servito stare in silenzio: a tacere anche se vedevo storture incoerenze, atteggiamenti e comportamenti irritanti da parte dell’altro. Desideravo non essere per qualche giorno il cliché della moglie riprodotta nelle barzellette della settimana enigmistica. Avete presente? Il marito sul divano con accanto le bottiglie di birra, stravaccato e la moglie che fa la battuta? Stereotipi. 

Mi è servito a capire se lui capiva che io stavo zitta con fatica e volontariamente. Lui ci ha sguazzato allegramente in questo silenzio. Che meraviglia: continuare a fare quel che si vuole senza una compagna che dice! No, non ha capito la fatica. 

Ho rotto il silenzio perché con certe persone senza consapevolezza è assolutamente indifferente tacere o parlare. Il silenzio è uno spazio mistico da saper assaporare. Il dialogo, il confronto è uno stato che presuppone il rispetto della differenza dell’altro. Se io gli dico, con calma chiaramente il mio punto di vista, che so: su come io intendo il rapporto uomo/donna in una relazione, se io poi gli chiedo: E tu, come lo vedi? Lui non mi risponde. Lui tace. Lui sa mettere in atto un silenzio perenne che è chiusura, difesa, offesa. 

Per questo motivo avevo scelto, giorni fa,  di utilizzare la sua stessa modalità: per fargli da specchio. Purtroppo lui è totalmente indifferente a qualsivoglia modalità relazionale. Se gli parlo, tace. Se io sto zitta, tace. Ci sono persone che hanno gravi problemi comunicativi, parlano del tempo, del cane, di storia o politica, di esperienze passate, ma non chiedetegli di fare una minima analisi su aspetti intimi. Sulla relazione, per esempio. Sul loro modo di intendere o portare avanti un rapporto affettivo. 

Per quanto mi riguarda, invece, ritengo indispensabile ogni tanto dirsi, a cuore aperto, quali aspetti possono essere migliorati per vivere un rapporto più soddisfacente. Vivere in coppia è un continuo adattamento. A mio parere è bene dirsi: è possibile migliorare questo aspetto per il benessere di entrambi. Senza offendersi perché siamo esseri limitati e quindi perfettibili. 

Fine