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Storie

Non ricordo nemmeno il nome

Immagine fotografica di L

Non ricordo nemmeno il nome. Sarà, come scrivevo a commento di un post che ho appena letto, sarà che ora – in questo tempo sospeso – come in una rete abbandonata restano impigliati remoti pesciolini.

Nello spazio tra la veglia e il sonno mi è apparsa un’immagine che poi si è dipanata. Giocavamo a beach volley in spiaggia. Avevo la pelle abbronzata e il corpo tonico dei miei diciassette anni. Lui veniva da un paese marino poco distante dal mio luogo di villeggiatura.

Passavamo tutta la stagione estiva al mare. Finite le scuole partivamo per quello che era diventato il nostro secondo paese: conoscevamo tutti. I turisti milanesi che giocavano a carte con mia madre e mio padre, quando ci raggiungeva. Noi giovani facevamo gruppo misto: turisti vacanzieri e locali.

Lui, di cui non ricordo il nome, era un bel tipo alto e scuro. Ricordo le labbra carnose. Si stava, sporchi di sabbia, verso il tardo pomeriggio al margine della spiaggia a giocare. Avevo capito che gli piacevo.

Non ricordo nemmeno come mi fu lanciato l’appuntamento serale. La sera si facevano le vasche: si passeggiava avanti e indietro con un cono gelato in mano. Non ricordo come ma ricordo i nostri corpi tra le barche arenate e l’odore di salsedine. Ci baciavamo.

Sicuramente lui teneva molto a me. A settembre, ritornata a casa arrivarono le lettere. Mi chiedeva di vederlo. Non so quanti chilometri faceva la domenica per tenermi fra le braccia e baciarmi. Ricordo solo le ore dei baci. Lunghissime ore con il sapore e il calore dei baci.

Mi sono ritrovata con questo ricordo forse a conforto in questo momento freddo. Come un piccolo tesoro da tenere stretto perché qualcuno per baciarmi ha davvero fatto tanta strada un giorno.

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Attimi

Gli occhi di E.

Particolare di un acquerello

Se pensava a lei, alla ex moglie del vicino, la immaginava simile a un cane. Per via degli occhi: docili mansueti supplichevoli; sottomessi allo sguardo del padrone perché da lui dipende il cibo nella ciotola e il guinzaglio.
Così dovevano essere gli occhi di E. Occhi sottomessi supplichevoli e docili.

Aveva pensato questo per un rimbalzo associativo, di quelli che la mente fa – quasi inconsciamente – di fronte a una scena inusuale e inaspettata.

Lo aveva visto: lui che non abbracciava mai, lui che non dava mai una carezza, lo aveva visto fermarsi chinarsi e dare due carezze al cane dei vicini che stava davanti al suo giardino legato alla catena. Tutti i giorni stava lì, ma lui non si era mai abbassato.

Probabilmente quel giorno del cane lo aveva attirato lo sguardo: così simile a quello di E. la sua docile ex moglie.
Lo sguardo che solo un cane può avere: di supplica. Accarezzami guardami amami: da te dipendo. Sono qui, solo, legato alla catena. Regalami un briciolo di attenzione, di calore.

Così doveva essere E. La moglie perfetta: così simile a un cane, ma non fedele per sempre perché alla fine, stanca delle catene, se n’era andata.

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Aveva strappato il foglietto giallo. Nel tragitto verso casa qualcuno aveva tracciato il suo nome su un cartello stradale. Con la O a forma di cuore. Anche il suo antico amore faceva così. 

I piumati predatori lasciavano traccia del loro ostinato volo. La cercavano e segnavano il territorio. Marcavano la presenza. Mandavano messaggi di fumo. 

Tornò a casa. C’era odore di muschio e vaniglia per via dell’incensiere. Ogni tanto, come una mosca fastidiosa, arrivava il pensiero dell’idiozia di Umberto. Il duplice tonfo della goffa caduta. Il tema del doppio lambiva perennemente. Doppio comportamento e doppio essere. Mangiò due ciliegie.

I fantasmi maschili dopo aver attraversato la sua mente, saltavano giù. Si autoestinguevano. Si esauriva l’energia. – Lei ha molta energia – le aveva detto la psicologa – me ne sono accorta appena l’ho vista. 

I fantasmi maschili non avevano energia per questo svanivano. Non se ne dava cruccio: a parte suo marito, Eleonora aveva incontrato conosciuto e amato uomini borderline. Forse per un’incosciente voglia di reciproca tortura. Forse perché ossessionata dall’inoperosa noia. Forse per difendersi dall’amore. 

Un mostro non costituisce un pericolo: semplice tenere le distanze emotive e non essere ingoiate. Brutto cattivo sporco. Si costruiscono gabbie per tenerlo circoscritto. Additarlo alla folla, facendo pagare il biglietto. 

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Belle mani 

Le venne presentato da un’amica stramba. Vieni che ti presento Riccardo. 

L’amica stramba si infilava facilmente e senza ritegno in luoghi dove c’erano uomini interessanti. Il pudore non la toccava, lei entrava prepotentemente ovunque pur di scambiare due sguardi e due parole con un uomo. Ospedali, banche, bar, negozi, ristoranti, campi da golf… nulla la fermava.

Così quel giorno la trascinò in banca a conoscere il direttore. Elena la seguì senza entusiasmo, a lei non piaceva fare brutte figure, non che fosse timida, era solo rispettosa. 

Il direttore era davvero un bell’ uomo: capelli lunghi e spettinati sale e pepe, un corpo magro e alto e delle bellissime mani. 

Scambiatevi i numeri – disse l’amica stramba. Non poteva crederci che l’avesse proprio detto, Elena rimase a bocca aperta. Comunque al direttore non spiaceva e si scambiarono i numeri. 

Solo dopo un mese di inutili messaggi formali lui la invitò a cena. Elena salì sulla magnifica e lussuosa auto. Lui era stupendo. Lei era stupenda. – Siamo proprio una bella coppia – lei disse scherzando. La sera era primaverile e chiara per la luna piena. Riccardo aveva scelto un ristorante milanese che ben conosceva e così consumarono, chiacchierando amabilmente, un’ottima cena. Tutto era perfetto. Elena giocava le sue carte seduttive con classe e lui, lui era proprio bello, bello e un po’ timido come impaurito. Terminata la cena Riccardo le disse: 

– Ti dedico delle musiche al pianoforte. 

Al piano terra, nel ristorante, c’era un pianoforte e lui si sedette a suonare. Elena guardava incantata le sue mani – le dita così sottili come ali – che si muovevano sulla tastiera. Il padrone del ristorante verso mezzanotte cominciò a fare battute sull’uomo che sceglieva di suonare il pianoforte invece di suonare altro. 

Quando, finalmente, il repertorio musicale terminò e ripresero il viaggio, Riccardo le chiese se voleva andare a bere qualcosa da lui. Ci siamo – pensò Elena, e gli rispose di sì. 

A casa sua, riposti i soprabiti e offerto da bere, lui le fece vedere le sue chitarre: stavano deposte come corpi in custodie foderate di raso, sembravano bare. Le toglieva, le prendeva, le abbracciava e faceva sentire a Elena il suono, perché capisse la differenza del timbro. Poi fu la volta del pianoforte che troneggiava in sala. Riccardo ancora una volta si sedette al pianoforte e cominciò a suonare accompagnando con la voce flebile. 

Alle tre Elena gli disse: – È meglio che vada. Non poteva crederci che per tutta la serata lui non avesse trovato il coraggio di baciarla e toccarla. Le sue bellissime mani avevano accarezzato strumenti, ma non il suo corpo. Al congedo lui biascicò delle scuse dicendo che nella sua famiglia non erano stati abituati a gesti affettivi. Più o meno così. 

Non volle più vederlo. Non volle più sapere nulla di lui dalla sua amica bizzarra. Le rimase per sempre l’immagine estremamente estetica e desiderante delle lunghe dita bianche che volteggiavano come ali senza volo. 

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Vedere il fumo 

Il narcisista sulla soglia della psico, alla chiusura della seduta, estrasse dal taschino del gilè la sigaretta elettronica e disse:

– Sono in astinenza da nicotina e, subito adesso, devo salire al piano superiore per un’altra ora di incontro con l’altra psicoterapeuta. Per fortuna ho con me la sigaretta elettronica e, se non darà fastidio, potrò fumarla. 

La psico gli raccontò che proprio grazie alla sigaretta elettronica lei era riuscita a uscire dalla dipendenza dal fumo di sigaretta, anni prima. 

Il narcisista era contento di aver messo una nuova tacca sulla lavagnetta con il titolo in gessetto: “Quante cose buone sto facendo per uscire dalle mie dipendenze”. La volta precedente aveva scritto: Sto rinunciando al vino, all’alcol. Come sono bravo. Mi pongo degli obiettivi e so mantenere la costanza nel raggiungerli. 

Il bambino stava imparando a camminare con le sue gambe. Bravo. Applausi a scena aperta. Il bimbo aveva dimenticato di dire che dietro a ogni sua scelta, per uscire dalla dipendenza, c’era lei: la sua donna compagna madre amica consulente segreteria… 

Il narcisista sicuramente non sapeva che la volta precedente lei, la sua donna, era stata proprio lì dalla psicologa, dalla sua psicoterapeuta. Una delle prime cose che le aveva detto per far capire il quadro era stata: 

– Posso spiegarle con un esempio pratico?

E aveva tirato fuori dalla tasca la sigaretta elettronica. L’aveva accesa e aveva aspirato il fumo buttandolo in faccia alla psico.

– Vede: giovedì sono stata da lui a cena. Dopo cena ho preso la sigaretta elettronica appena comprata, perché ho deciso di smettere, e ho cominciato a fumare buttandogli in faccia il fumo, come sto facendo ora con lei. Io e il suo paziente siamo in relazione da tre anni e io ho sempre fumato sigarette. Sa dopo quanto tempo si è accorto, guardandomi parlandomi a una distanza minima, prendendosi in faccia tutto il vapore, che io stavo facendo qualcosa di strano, di nuovo? Dopo venti minuti. Dopo venti minuti mi ha detto: – Ma stai fumando una sigaretta elettronica? Lui, semplicemente, non mi vede. Mi è davanti, mi parla, potrei avere i capelli verdi o viola, avere un rossetto rosso che non metto mai, indossare un vestito estremamente intrigante con le gambe nude, ma lui continuerebbe a parlarmi senza registrare variazioni. Per venti minuti. 
Barriere, coperture, diaframmi, appunto, che occultano l’immagine delle cose per sottrarci all’incontro con il reale. Nessuna sorpresa, nessuna meraviglia, nessun risveglio di fronte all’abitudine delle immagini convenzionali del mondo. Diversamente, la pratica dell’arte punta a scuoterci dal sonno e a rendere possibile l’incontro sorprendentemente e spiazzante con il reale”.

Da: Il mistero delle cose – Massimo Recalcati