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Impariamo l’italiano

Ormai quasi tutti i miei libri sono di là: nella casa nuova. Oggi ho però trovato un reperto del 1984. È un volumetto di Cesare Marchi edito Rizzoli dal titolo: Impariamo l’italiano.

Come sempre, quando trovo un mio libro, apro a caso per vedere cosa c’è. E ho trovato questa riflessione che ormai appare direi datata… Il capitolo è Scrivere una lettera. Vi si dice che dopo gli esami scolastici difficilmente un adulto prenderà in mano una penna per scrivere alla fidanzata… oggi si telefona, si fa più presto.

In effetti i primi sms appaiono dopo il 1992. E con loro il ritorno della scrittura, non più con la penna, ma digitando su uno schermo.

Chi ha avuto, come me, un amante in quegli anni e perdipiù una persona anche amante della scrittura, sa quanto ha significato poter comunicare a qualsiasi ora del giorno e della notte attraverso un messaggio scritto anziché con una telefonata.

Ho una risposta autografa di Elisabetta Sgarbi che mi rispondeva in merito all’invio di una mia bozza editoriale che aveva come filo conduttore proprio questo nuovo canale comunicativo: gli sms.

Oggi scriviamo sempre e scrivono tutti. Anche chi non conosce le regole grammaticali e sintattiche della nostra bella lingua.

Guardate qualsiasi trasmissione televisiva: c’è sempre qualche libro libretto o libercolo da lanciare. Chi non ha pubblicato un libro oggi è nessuno. E chissenefrega se è un testo auto pubblicato e finito nel dimenticatoio dopo un lasso di tempo brevissimo.

Ho grande rispetto per la nostra bella e difficile lingua italiana. Per questo faccio veramente fatica, e infatti non lo faccio, a seguire chi apre un blog senza nemmeno usare la punteggiatura o facendo errori grossolani.

Lo so. Sono troppo rigida. Ma va bene essere tornati al tempo degli scriba con la tavoletta d’argilla che oggi è un touchscreen… Ma santo cielo! Rispettiamo due regole.

Ecco per chi vuole una spolveratina a due o tre cosine come: dove mettere l’apostrofo o la virgola, qual è il plurale di goccia e grigia, come non confondere congiuntivo e condizionale… consiglio questo libro assai datato, ma utile, per ricordare due o tre cose da sapere prima di impegnarsi a scrivere o pubblicare.

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Intervista per MasticadoresItalia

In genere mi piacciono le interviste. Mi piace farle e mi piace riceverle. Perché rispondere a domande è sempre un modo per capire cosa vogliamo e in che direzione stiamo andando.

A questa intervista, gentilmente proposta da Juan Crivello, ho risposto, com’è nel mio stile, velocemente sinceramente e direttamente appena mi è arrivata.

Ho accettato di collaborare con MasticadoresItalia da pochi mesi.

1 – Perché scrivi?

Scrivo perché mi aiuta a capire, a fissare, a eternalizzare un momento.

2 – Da quando scrivi? C’è stato un momento specifico che ti ha spinto a iniziare a scrivere?

Scrivo dai sedici anni. Non c’è stato un momento specifico: semplicemente avevo bisogno di scrivere.

3 – Nella tua giornata lavorativa quotidiana, quanto tempo dedichi alla scrittura? Hai dei rituali prima di affrontare la pagina bianca?

Scrivo sempre, ogni giorno. Non ho rituali particolari tranne l’uso della penna stilografica o di una penna gel con inchiostro nero denso e segno forte.

4 – Sei un compasso o uno scrittore di mappe?

Scrivo di getto senza ripensamenti.

5 – Cosa vorresti recensire del tuo lavoro letterario?

Nulla.

6 – Cosa pensi delle nuove tecnologie come strumenti per lo scrittore. Aiutano o ostacolano?

Gli strumenti servono, sono utili. Dipende dall’uso o dall’abuso che se ne fa. Per quanto mi riguarda sono all’antica: carta e penna preferibilmente. Ma non disdegno il tablet.

7 – Pubblicare in digitale cambia i tuoi metodi di ispirazione o di lavoro?

No. Ho sempre scritto di getto e senza ripensamenti. Cambia solo il canale di comunicazione che, nel digitale, è più veloce.

8 – Ritieni che accedere al lettore che legge su tablet, computer o cellulare, in spazi diversi ad esempio treno, autobus, metro… possa aiutarti a essere più letto?

Certamente. Il mio blog è molto seguito e sono certa in spazi diversi. Scrivo generalmente testi piuttosto brevi e di facile lettura.

9 – Pensi che durante la Pandemia la solitudine, l’isolamento abbiano influenzato la tua rete di contatti? I tuoi lettori sono aumentati?

Credo che la Pandemia da un lato abbia dilatato il tempo della lettura ma, da un altro lato, ci ha impedito la leggerezza. Io stessa non ho più letto un libro per mesi pur essendo quella che si dice una forte lettrice. Eravamo tutti spersi in una nebbia lattiginosa.

10 – Autopubblicazione o editoriale? Credi che ci siano ancora dei dubbi nel contemplare il desktop publishing per pubblicare un’opera?

Non mi piace l’idea della auto pubblicazione. Credo che occorra fare gavetta e molto lavoro per essere pubblicati. Qualità e non quantità. Ormai sembra che tutti debbano avere un libro con il loro nome in copertina…

11 – Pensi che la scommessa di Masticadores nella ricerca di quel lettore digitale sia corretta? Qual è la tua opinione al riguardo?

Ho accettato di far parte di questa comunità perché ho visto una serietà di base e la ricerca della qualità.

12 – La partecipazione come scrittore a Masticadores è positiva? Cosa ti ha dato?

È da poco per poter giudicare. Forse non sono ancora in grado di capire i benefici. Ma è presto. Ogni seme gettato ha bisogno del tempo opportuno per germogliare.

13 – Quale diresti che è il tuo segno distintivo come scrittore?

La verità. L’ho appena scritto nel mio ultimo articolo: uno scrittore dovrebbe raccontare la propria storia senza finzioni maschere trucchi nascondimenti. Scrivo esattamente quello che vivo e penso.

14 – Parlaci del tuo ultimo progetto. Stai lavorando a uno nuovo oggi?

Ho molte bozze in cantiere, ma sono un po’ nauseata dal mondo editoriale. Tutti scrivono pubblicano, ma pochi scrivono pagine che rimarranno. Mi piacerebbe scrivere pagine che rimangono…

https://masticadoresitalia.wordpress.com/2021/07/14/masticadores-intervista-a-eletta-senso/

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Scrivere


Amo scrivere.

Con momenti di salita e discesa, con pause di silenzio e momenti di chiasso, con cautela o sfrontatezza.

Scrivo da sempre, da quando avevo sedici anni, forse meno. Scrivo per me, scrivo per altri, scrivo perché questo so fare.


Preferisco lo scrivere al parlare.

Quando a diciassette anni volevo colpire al cuore la sensibilità di mio padre, fargli capire – davvero capire – quello che provavo e desideravo, gli ho scritto una lettera. Vivevamo sotto lo stesso tetto, ma io gli ho scritto ottenendo quell’intimità necessaria per una comunicazione sincera, pulita, scevra dall’ingombro dei corpi.

Ho poi scritto a un amore, ad amori, e da lui, da loro, ho ricevuto un mare di parole. Scrivere per me è toccare l’anima al di là del quotidiano, del senso chiuso di questa vita, è andare al centro senza dispersioni e condizionamenti.

Per questo il dolore più grande che possono darmi è vietarmi di scrivere ( non scrivermi più ): è come uccidere una parte di me, tagliarmi le ali, chiudermi la bocca, togliermi il modo espressivo elettivo.


Attraverso la scrittura mi spoglio e spoglio. Dall’orgoglio, dalla staticità, dall’impossibilità di mutare variare cambiare giocare sperimentare stimolare un modo nuovo di vivere e stare – dentro la scatola del tempo e dello spazio.

Il regalo più bello che ho ricevuto è stata una lettera. Una mail in questo tempo veloce. Una comunicazione scritta arriva più velocemente al cuore. Mira al centro. Non ha dispersioni.


Ci sono persone che amano parlare. Io amo scrivere. È questo il mio canale preferenziale per dire.

Per questo io sono nelle cose che scrivo, più che in me in carne ed ossa.
Per questo per conoscermi a fondo basta leggermi. Non stare alla superficie che mostro.


La mia traccia nel mondo è la bava – lucente o oscura – della mia scrittura.
Quel che resterà dopo di me. O svanirà con me.


C’è chi accumula cose, io accumulo parole.

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Le pagine vuote

Immagini fotografiche di Eletta

Riprendo questo articolo di Neda ( la mattina sono così fuori che avevo anche sbagliato autrice 😜)

Agenda
https://wp.me/s5yHsv-agenda

Come le ho scritto nei commenti, la mia agenda è vuota di appunti e note dal 3 gennaio: giorno dell’incidente.

Ha tutte le pagine bianche come se non ci fosse stato avvenimento impegno incontro appuntamento evento. Invece…

La scrittura serve a marcare segnare depositare tracce di vita.

A me manca molto scrivere su carta.

Sto lentamente esercitando il polso nelle rotazioni. Piano piano riprenderò a lasciare tracce del mio procedere e a tenere memoria nella bava d’inchiostro.

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Fogli di ghiaccio #Giornata internazionale della montagna

Immagini e parole si mescolano, si fondono, si inseguono nei testi e commenti creando nuove immagini e metafore.

Ha commentato Massimo Legnani nel post precedente sul tema neve/bianco/contrasto:

quanta roba qui! parti da delle lenzuola improvvidamente stese (quando le ritirerà saranno fogli di ghiaccio) e spazi in riflessioni di vita che condivido, considerazioni di fotografia, citazioni meritevoli di attenzione”

lenzuola come fogli di ghiaccio

immagine veramente bella che si lega alle pagine e ai fogli bianchi di Marcello Comitini…

Tutto diventa paesaggio di scrittura.

Tutto si mescola a contrasto come i segni neri sul niveo foglio…

Le lenzuola come fogli di ghiaccio mi riportano a questo brano:

” Consegnò al maestro, tremando, un quaderno pieno di parole di suo pugno, il proprio libro.

Perché tremi? gli chiese il maestro.

Queste pagine – rispose – come fossero fogli di ghiaccio, mi bruciano le dita. Tremo di freddo.

Dimmi qual è il contenuto di queste pagine – riprese il maestro.

Lo ignoro – rispose.

Se non lo sai tu, chi lo potrà sapere? – disse allora il maestro.

Il libro lo sa.

Da: Il libro della sovversione non sospetta – Edmond Jabès

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Il filo di-vino

( Rielaborazione grafica di Eletta )

Qui, non ho mai scritto testi lunghi. Non ho mai pubblicato racconti lunghi. Ieri, leggendo un racconto di Massimo Legnani nel suo blog

https://orearovescio.wordpress.com

ho visto la nota a piè di pagina: era stato pubblicato su una rivista letteraria. Allora mi è venuto in mente che anch’io anni fa ho pubblicato un racconto in un libretto per la Casa Editrice: Edizioni Ensemble con il mio nickname. Me ne ero scordata. L’antologia si intitola: In vino litteras. Dedicata al vino. Per chi vuole assaggiare: ecco un estratto del testo opportunamente abbreviato.

(…)

Si vedevano abitualmente alla caffetteria alcune mattine alle sette e mezza. Ultimamente poteva capitare che lui la cercasse in giro anche nel fine settimana. Gironzolava intorno alla loro caffetteria finché non avvistava l’inconfondibile vettura verde ramarro di Arianna. Gli bastava sapere che lei era lì, magari a bere una cioccolata con gli amici. Gli bastava sapere che c’era. Poi tornava a casa.

Era stato proprio il rito del caffè a far incrociare i loro sguardi mesi prima. A far nascere la curiosità, l’interesse, l’attenzione.

Un giorno, per caso, avevano scambiato due parole alla cassa. Poi c’era stato lo scambio imbarazzato dei numeri di telefono. Le prime garbate telefonate e i timidi messaggi in privato.

Nelle loro telefonate lui era più cauto e controllato. Arianna voleva giocare e lo stuzzicava. Più lui si ritraeva – mollusco nel guscio a chiocciola – più lei entrava a sgusciarlo con le lunghe dita. Dal corpo molle allora uscivano le antenne. Si erigevano a captare onde concentriche e vibrazioni vocali. Lei parlava con voce calda e sensuale. Ogni tanto aveva dei trilli. E la voce diventava argentina: argento puro non opacizzato.

Continuarono così per mesi. Lui aveva cominciato a chiamarla tesoro. Finiva le telefonate con un bacio. Ma un bacio vero non c’era mai stato. Non si erano mai sfiorati i corpi.

Era iniziato così, d’inverno, il gioco l’azzardo il filo rosso. Arianna era penetrata nel labirinto per perdere la noiosa monotonia del quotidiano. Per osare, disarmare, azzardare, scardinare. Per giocare.

Lui aveva perduto la bussola e l’orientamento. Voleva vederla. Voleva rapirla. Voleva scoprirla, annusarla, sentirla, toccarla, leccarla, ammirarla. Averla davanti a sé, solo per sé, per un lungo tempo.

Ma era sposato.

A lei non piaceva il piccolo quadrato in cui bisognava muovere le pedine. Tutto così stretto e asfittico. Voleva il mare. L’aperto, il disteso, l’infinito.

(…)

– Vorrei pranzare con te.

Non si erano mai visti fuori, non erano mai stati soli. Si assaporavano solo assaporando il caffè. Mescolavano il sogno con lo zucchero. L’Eros si scioglieva nella tazzina. Ciascuno poi andava per la sua strada portandosi dietro il profumo e il gusto. Finché l’aroma non svaniva assorbito dalle occupazioni della routine quotidiana.

Era un ristorante di campagna. C’era erba, odore di erba e un pendio con un boschetto. Ormai era primavera.

L’imbarazzo di stare uno di fronte all’altra per un tempo più lungo di un caffè a colazione.

(…)

Arrivò il primo piatto e nei calici il cameriere versò il vino rubino. Il vino le dava subito alla testa. Arianna lo sapeva: troppo magro il suo corpo. Bastava un sorso: tutto girava e non c’era sostegno. In quell’atmosfera vibrata si guardavano, si studiavano, gustavano le prelibate vivande e sorseggiavano il vino.

Insieme prendevano il calice e lo portavano alle labbra, insieme lo sentivano denso e morbido in bocca come un bacio liquido, insieme lo lasciavano scendere nelle vene.

Fu così che, sorso dopo sorso, le distanze si sciolsero e le ridenti parole si gettarono a capofitto nei calici. Fecero tuffi inebrianti, schizzando di rubino la candida tovaglia.

Fu così che d’un tratto tutto si sciolse. Il laccio della camicetta, il laccio dei capelli, il laccio delle scarpe, il laccio in vita della vita.

Cominciarono a ridere. I loro corpi si muovevano simmetricamente allontanandosi e avvicinandosi al fulcro. Come calamite sempre più attirate dal magnetismo di Eros, dai vapori di Bacco.

Lui le accarezzó le mani, il viso, le gambe. Dopo il dolce il vino era finito, così come era finito il controllo razionale: gli uncini del “si deve” e “non si deve”.

La portò di sopra ridente e svanita.

Si addormentarono così uno nelle braccia dell’altra.

Quando si risvegliarono occorreva andare. Il confine del box era segnato. Occorreva trovare la via d’uscita. La porta che riportava nel sociale delle regole, del dover essere e fare. Rivestire il corpo, truccare il viso, rimettersi le maschere. Uscire.

Si rividero il lunedì mattina al caffè delle sette e mezza. Si sorrisero e si amarono. La verità era stata svelata dal vino. L’intimità del sonno, uno nelle braccia dell’altra, valeva più di ogni altra reale cosa esterna.

Mitico, divino e reale era il loro sogno in cui Bacco rideva.

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Francamente

Immagine grafica di Eletta

Per alcune questioni di ricerca ho rivisto, scorrendoli, gli innumerevoli articoli del mio sito.

Francamente non riesco proprio a capire come qualcuno, pur leggendomi da anni e conoscendomi, non abbia ancora capito nulla di me.

I temi ricorrenti su cui scrivo già raccontano.

Alcuni episodi descritti in maniera talvolta brutale, cioè senza fronzoli maschere veli e abbellimenti.

Il mio continuo richiamo all’importanza dell’etica.

Il mio continuo richiamo all’importanza della comunicazione e della responsabilità individuale.

Come vivo. Cosa amo. Cosa mi piace. Tutto scritto nelle e tra le righe. Eletta Senso è il mio nickname ma Eletta Senso – alla fine – sono io.

C’è qualcuno che, pur avendomi conosciuta e frequentata, pur avendo delle ulteriori carte in mano per “leggere” che persona sono, incredibilmente non ha ancora capito chi sono: pregi e difetti compresi.

E si ostina a non capire. Penso di essere piuttosto tenace. Penso di avere una buona dote di energia. Ma arriva un certo momento in cui è bene abbandonare il terreno della deficienza per approdare verso lidi di minima comprensione. Là dove non si deve spiegare/rispiegare, dire/ripetere fino alla noia, motivare/stimolare chiedere cercare saldare.

Più di così non è possibile fare. Chi vuol capire ha già capito. Chi non vuol capire non capirà mai.

Naturalmente non mi sto riferendo a voi che mi seguite, ma non mi conoscete.

Non ho mai avuto la fortuna di avere un rapporto affettivo o amicale con una/un blogger. Mi sarebbe piaciuto sapere di più attraverso i suoi scritti. Perché comunque la nostra scrittura comunica, dice, racconta anche la parte più sotterranea – e forse meno evidente nel quotidiano.

Avevo una amica che leggeva i miei testi ad altre amiche vantandosi di conoscermi. Evidentemente leggermi non è servito poi a molto considerato il pessimo comportamento che ha avuto con me.

Sono davvero pochissime le persone a cui ho dato l’opportunità di “leggermi”. Le posso contare sulle dita di una mano.

Se poi la fiducia viene ricambiata con la deficienza – cioè la mancanza assoluta di comprensione – non mi rimane che bloccare per sempre la possibilità di venir letta, almeno come Eletta.

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Parole sepolte 

Sto ricamando pagine e pagine calligrafiche. È un ottimo passatempo in questo momento di tempo sospeso. Coprire le parole e ricamarci sopra – linee spirali fiori foglie – è come seppellirle. La carta rimane come palmo aperto, pieno dei resti dei semi neri.

Potrei strappare tutto. Preferisco invece mantenere la traccia sottesa: i solchi coperti. Il rastrello che riporta un po’ di umida terra sulle ferite.

Non guardo e non leggo mentre faccio l’operazione.

Non desidero vedere quello che vado a coprire cancellare sotto- mettere.

In fondo non ha senso sapere quello che si è andato depositando giorno dopo giorno nel granaio.

È già diventato farina e pane. È già stato masticato inghiottito defecato eliminato. È già tornato terra.

È già insignificante. Senza emanazioni. Ha perso ogni sostanza energia vitale. È solo resto residuo scoria avanzo. Un accidente. Un’impronta fossile di piccole zampette di ali ramage trasparenti. Ali che non volano da millenni. Esaurita la loro funzione.

Quindi passo con uno strato decorativo le piccole salme delle parole morte. Estinte. Esaurite. Non più vive e vitali.

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Quantità e qualità

Il mio blog su questa piattaforma ha due anni. Ieri mi è giunto questo riconoscimento.

La quantità non corrisponde alla qualità. Seguo e apprezzo altri blogger che scrivono con meno frequenza ma che mantengono una buona, se non ottima, qualità di contenuti e forma.

Per quanto riguarda la forma: ci bado molto, essendo una “purista”. Non posso proprio apprezzare chi scrive facendo errori ortografici. Soprattutto in questa epoca di alta tecnologia.

Io scrivo molto e, praticamente pubblico quotidianamente, perché scrivo sempre. Non posso fare a meno della scrittura: è il mio cibo come la lettura. Se non scrivo qui, scrivo sui miei taccuini, sui libri, su fogli, su lettere, bigliettini, e mail. Se potessi scriverei sui muri. Lascerei foglietti poetici appesi ai rami del bosco.

Le stanze della mia casa sono invase dai libri. Ho libri in camera, in sala e in bagno. Ho libri per terra ovunque. I miei libri non sono oggetti morti statici. Vengono sempre spostati, presi, accuditi, sfogliati, riletti, ricercati, amati. Come scrive Recalcati nel suo libro: “A libro aperto” un libro è un corpo da amare. Che ne direste di un uomo che non sfiora mai il corpo dell’amata? Che ne direste di persone che scrivono senza leggere?

La cosa che più mi manca sono i miei libri, anche i quattrocento donati per il trasloco, anche quelli che sono rimasti in deposito in città. Ogni tanto mi capita di volerne prendere uno tra le mani, qui in montagna, e mi aggiro a cercarlo – così come si cerca il corpo di un amato – e non c’è. Mi prende allora la nostalgia.

Leggere è importante nella mia vita.

Ho ordinato diversi libri, tra cui quello citato di Massimo Recalcati.

Se non vuoi morire, comincia a vivere.

Se vuoi vivere, comincia a imparare. Comincia a riflettere. Comincia a lavorare, fare un po’ di fatica, comincia a muoverti, incontrare, modificare certi incrostati comportamenti.

Se oggi sono quella che sono, lo devo ai libri. Molti per me sono stati e sono Maestri di vita.

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Parole Scrivere

Viveva di parole

Perché sei triste gioia mia?
Cosa doveva dirgli? Impossibile che lui capisse.

A lei mancavano le parole.

Di parole si nutriva.

Le mangiava a colazione inzuppandole nel caffè.

Le mangiava a pranzo fritte o saltate in padella.

Le mangiava a cena bollite con un filo d’olio.

Le adorava crude o cotte.

Preferiva coglierle dall’orto croccanti di rugiada la mattina. Oppure le trovava nel bosco sotto i pini adagiate sul muschio.
Le pescava nell’acqua del torrente o tra le nuvole del cielo.

Dormiva e si svegliava in un mare di parole.

Le scriveva sui carnosi fogli o sugli asettici schermi.

Lui non poteva capire che non erano i cibi a nutrirla o i gioielli a adornarla. Non erano i baci o le carezze. Quello che la tenevano davvero in vita erano solo le parole.

Ma lui non impiegava tempo a scriverle parole. Aveva voluto in dono, ai tempi, una prestigiosa penna stilografica e lei gliel’aveva donata pensando che, finalmente, le avrebbe scritto parole. Invece lui non scrisse mai nulla per lei. Non una lettera non un bigliettino.

E neppure sullo schermo le scriveva scegliendo con cura quelle parole che l’avrebbero sfamata.

Era un uomo avaro di parole.

Era inutile spiegargli la gioia di una frase ben scritta, la danza di due parole che si muovono, il suono delle esse sonore, il rotolio delle erre, la femminilità delle effe.
Era come spiegare a un sordo la melodia di un usignolo.

Nel pomeriggio, mentre lui era nell’altra stanza, lei aveva guardato nella libreria e aveva preso un libretto dal dorso nero. Non si ricordava di aver pubblicato un racconto su quella antologia. Con occhi incantati aveva riletto la storia che lei, anni prima, aveva scritto e si era stupita delle sue parole che scorrevano fluide e con i capelli al vento.
Aveva portato via il libretto nero. Lo aveva messo nella sua casa, adagiato sopra gli altri libri che nel tempo aveva pubblicato.

Strano che lui non avesse ancora capito che lei era una scrittrice.

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Scrivere è fotografare

( Immagine fotografica di Eletta Senso )

Non so scrivere se non di quello che vivo e vedo.
Non ho l’arte dell’invenzione di alcuni romanzieri. Certo, posso alterare i dati e aggiungere qualche tocco di invenzione, qualche colore imprevisto, qualche traccia che confonda. Ma dalla realtà che vivo parto, osservando.
Non ho mai avuto memoria, se non scrivendo. Tutto passa dalla carta ( o, ultimamente dallo schermo ) su cui annoto. Impressioni parole emozioni fatti.
Si può dire che fotografo scrivendo.
Vedo una coppia che fa colazione in caffetteria al tavolino davanti a me. Vedo gli occhi della donna e la sua bocca amara. Capisco che l’uomo di cui vedo la schiena le sta dicendo che è finita. E su questo scrivo, come ho scritto ed è depositato nell’altro blog.
Non sempre chi osservo è contento di essere osservato, ma non sa che il momento che sta vivendo sarà immortalato nella mia scrittura. Perché sono un essere invisibile senza nome e senza corpo.
Catturo senza essere vista.
Essere osservati analizzati visti non piace ai più.
Avevo deciso di scrivere un libro. Raccogliendo tutti gli appunti sparsi. Un romanzo. La persona a cui ho chiesto di farmi da revisore di bozze non ha voluto neppure leggere una pagina. La persona era uno dei personaggi. Anche se i suoi dati anagrafici erano alterati. Non ha voluto vedere cosa avevo osservato e scritto. Perché vedersi nello specchio di un altro fa paura, noi che non possiamo vedere e sapere il nostro vero volto. Avevo bisogno di passare attraverso la lettura ad alta voce davanti a un altro. Serve a chi scrive la lettura ad alta voce. Serve la revisione.
Sono rimasta molto male al suo rifiuto. Ha rivelato una scarsa conoscenza di me e della mia capacità di scrittura e una immensa paura di vedersi- infilzato in una teca come certe farfalle.
Solo chi scrive può capire che la mia richiesta era pulita. Così come è pulita la richiesta che fa un fotografo prossimo a una mostra che chiede a un vero amico di scegliere, insieme, le istantanee più belle.
Anche se, sullo sfondo, compare la sua ombra.
Ho cestinato l’idea di questo libro.
Per fortuna la realtà offre spunti molteplici e potrò girare lo sguardo per trovare nuovi orizzonti.
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Taccuini

Ieri sera ho preso dalla pigna un taccuino. La grafomane nel tempo ne ha stilati parecchi di questi libretti. Lei ha un bisogno innato di scrivere scrivere scrivere. Come se i fatti – senza passare dal fissaggio della calligrafia – non restassero fermi nella memoria.

Comunque . Ha preso un taccuino e ha letto.

All’inizio la grafomane non comprende mai immediatamente la situazione: di chi si parla, quando è accaduto il fatto, qual è la fiamma, perché arde.

Poi dopo due o tre pagine mette a fuoco e ricorda. L’effetto immediato è di stupore e spaesamento. Ma davvero era lei ad arrabbiarsi inquietarsi attendere anche semplicemente un messaggio da lui? Davvero ha detto ” ti amo” a quell’uomo? Davvero è circolata tutta quella incredibile energia per lui?

La grafomane dopo la lettura ha la percezione netta che nel tempo lei è realmente cambiata. Che ora non aspetterebbe un segno dall’altro per un intero pomeriggio domenicale. Non palpiterebbe impazzita come una falena vicino alla luce fino a bruciarsi.

Oppure sì?

Prende il taccuino e, lentamente, straccia pagina per pagina fino a farne un bel mucchietto che finisce nel cestino della carta.

E ricomincia a scrivere.

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Metti una benda 

Perché tu non puoi legarmi le mani e mettermi un bavaglio: m’escono dagli occhi le parole, come luminose frecce attraversano l’aria e s’infilzano sul puntaspilli. Perché non ho fili che misurano i miei pensieri, non ho tracciati di emozioni e di segrete verità. Come tu non hai elettrodi che portano il resoconto su un papiro di Egitto del deposito dei granai. Perché come gli artisti senza mani, che dipingono con lo strumento in bocca, non ci saranno ostacoli a frenare il desiderio di scrittura, il girovagare delle sinuose lettere che si accavallano a riva frangendosi sulla carne della carta.

Non smetterò di geroglificare le note del mio umore. 

Perché ci ho messo una vita a rompere le catene e le cavigliere, e i braccialetti son stati buttati in acqua: albergano tra i pesci e l’orologio col pavé finirà nella bocca di un vulcano. Nella incandescente lava si scioglieranno i diamanti. 

Perché non è il dovere che mi muove, il calcolo e l’opportunità. Il bilancino che misura il dare e l’avere col corpo in controluce che cammina oscillando sul bordo tagliente del ” si deve”. 

Non avrò padroni. Non avrò remore a muovermi agile e leggera nel campo aperto esteso e ampio del possibile. Non tolgo nulla al mio desiderio di te quando parto galoppando sul mio destriero alato. L’immaginare non toglie spazio al reale: lo amplifica all’infinito, invece. 

Se ti fa male la luce: metti una benda agli occhi. 

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Scrivo 

In questi tempi devo fare vuoto e togliere stracciare fogli e fogli zeppi di scrittura. Ogni tanto rileggo e ripasso la mia vita. Come ero. Come stavo. Cosa chiedevo. Come soffrivo ridevo cadevo esultavo.

Chi chiamavo “amore” per chi palpitavo.

Tornano a galla ricordi sepolti. Quanto inutile darsi da fare per dire. Ho scritto sempre. A tutti. Di tutto. Per lo più ho scritto per me. Non potrei vivere senza scrivere.

Questo, di cui vedete un frammento nell’immagine, è un foglietto lungo e stretto. Prima di stracciarlo lo deposito qui.

Scrivo

perché altro non so fare

scrivo

perché solo così io vivo

lasciando tracce nere

piccole formiche

sulla carta

bianca e deserta.

Scrivo

perché così mi esprimo

così dilato il mio essere

e la mia solitudine.

Scrivo

perché bagnandomi nel mare della scrittura

mi purifico

anche maledicendo

sempre non tralasciando

le scie rosse di sangue

la spuma di fiele

i fiotti di veleno

le linee fosche di rancore

le domande continue

perché

perché

segno il mio salire

graffio le discese

amplifico spazi di assenza

rifiuti che mi congelano

ombre che mi relegano – in angoli bui –

colori che mi esaltano

attimi che mi interrogano.

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Tu che non sai

Tu che non sai

La fame che mi prende

Quando il mio magro corpo

È in cerca d’assonanze

Come di prelibati cibi

Di traboccanti versi

Di ritmi asimmetrici e scarti di parole.

Cadute verticali

Con

Improvvise

Vertigini.

Nulla mi quieta

Come l’universo verbale

Che decifra la vita

nell’onda musicale.

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Raccontare deforma

Per riprendere riflettere e rispondere: pongo parole non mie. Che faccio mie.

Raccontare deforma, raccontare i fatti deforma i fatti e li altera e quasi li nega, tutto ciò che si racconta diventa irreale e approssimativo benché veritiero, la verità non dipende dal fatto che le cose siano o succedano, ma dal fatto che rimangano nascoste e non si conoscano e non si raccontino, appena si raccontano o si manifestano o si mostrano, anche in ciò che appare più reale, in televisione o sul giornale, in ciò che si chiama la realtà o la vita o addirittura la vita reale, passano a formare parte dell’analogia o del simbolo, e dunque non sono più fatti, ma si trasformano in riconoscimento.

La verità non riluce, come si dice, perché l’unica verità è quella che non si conosce e non si trasmette, quella che non si traduce con parole nè con immagini, quella celata e non controllata, forse per questo si racconta tanto o si racconta tutto, perché niente sia mai accaduto, una volta raccontato”.

Javier MARÍAS

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Giochi di linguaggio

Per imparare a disegnare in Accademia ho fatto noiosissimi esercizi di copia dal vero di solidi per giorni e mesi. Solo così ho imparato a vedere: per saper disegnare occorre saper vedere ombre luci volumi linee forme.

La stessa cosa per saper scrivere. Occorre fare quotidiani esercizi di scrittura, non sempre divertenti. Per imparare a scrivere occorre scrivere e leggere quotidianamente. Solo così si impara la grammatica e la sintassi, solo così si apprende il vocabolario, i termini lessicali da mescolare come gustosi ingredienti di una appetitosa ricetta. Come ho commentato in diversi altri blog, io tengo molto anche alla forma. Non sopporto la sciatteria nella scrittura: anche nell’uso della punteggiatura occorre saper dosare.

Ho trovato utili, nel tempo, i giochi linguistici. Obbligano a tener conto di una struttura e allenano la mente.

Un interessante esercizio linguistico è questo:

Amore beato che dentro eterni fuochi gialli hai impresso lucenti mari neri, orizzonti pieni; quando ridi sai tenere unite verità zuccherine.

Capito qual è il gioco?

( Immagine grafica dell’autrice )

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Scrivere

Lo scrivere

Lo scrivere è ricamo di pizzi ghiacciati e brine. Con un ago sottile tendere il filo e sgocciolare le parole.

C’è chi fa patchwork: pezzetti diversi assommati e collegati da grandi gugliate. C’è chi preferisce l’incanto del minuscolo, chi arazzi da parete.

Molti tessono con la testa china, filano e filano e sgrovigliano.

Davanti ai manufatti manoscritti si sta come davanti a opere pittoriche: a chi piace Van Gogh a chi Caravaggio. Questione di gusto e grammatica.

Il linguaggio è una carezza. Deve lisciare la superficie serica. Non pesare. Volare. Danzare.

Anche per fare un collage polimaterico serve gusto e occhio: non basta prendere a caso ed attaccare i pezzi. Accostare con equilibrio è armonia. Musica. Ritmo.

Tutti siamo capaci di copiare, pochi di creare.

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La donna in rosso 

La donna a scacchi rosso argento, accostamento cromatico malsano, scuote la corvina chioma togliendosi il cappello rubino. Ha affilate unghie, affilate unghie imporporate mentre scodella la parola del giorno, il Verbo. 

– Siamo affettivi.

Dice. Di tutti gli affetti fa un bel mucchio, li trita per benino prima di versarli nel domestico pentolone, per cuocerli a fuoco lento. Offre il cibo quotidiano come sostituto del corpo che preserva da contatti e morsi. 

La signora in rosso ha uomini bellllisssimi che, a sua detta, la scarrozzano avanti e indietro: dove lei comanda. Son uomini giovani e lieti di servirla. Corrono a gran frotte. Li tiene avvinti ( questo il segreto sussurrato ammiccando ) non concedendo il bene prezioso, il nido, il delta di Venere. Il luogo sacro. 

Così la femme in rouge ci serve le sue ricette di savoir vivre. Le butta con nonchalance sul tavolino del caffè. Noi, povere ancelle ignare, noi giovani amiche -che sedurre non sappiamo – la guardiamo con sincera ammirazione tra una selva di punti interrogativi.

Rispolvera poi, antichi aneddoti buttando polverose ragnatele sui presenti, appiccicose di noia e dejavu. Rievoca a piè sospinto numerosi fantasmi: l’hanno così a lungo corteggiata, seguita, amata, desiderata, voluta. Le hanno offerto il caffè, mazzi di nontiscordardimè, i suoi fedelissimi lacchè. 

“IL ROSSO che di solito abbiamo in mente è un colore dilagante e tipicamente caldo, che agisce nell’interiorità in modo vitalissimo, vivace e irrequieto. Dimostra un’energia immensa e quasi consapevole. 

Questo rosso ideale può subire nella realtà grandi cambiamenti, deviazioni e variazioni. Pensiamo soltanto al rosso Saturno, al rosso cinabro, al rosso inglese, alla lacca di garanza, dalle tonalità più chiare a quelle più scure. Questo colore dimostra che si può conservare il proprio tono fondamentale e insieme risultare caldo o freddo”.

Da: Wassily Kandinsky _ Lo spirituale nell’arte

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Ieri sera 


Ieri sera si parlava di come son cambiati i tempi. Non cosucce da poco: cambiamenti sostanziali nel modus vivendi. Fino a una manciata di anni fa dovevo tenere a bada gli assalti, allungando le braccia, per allontanare i maschi predatori. Avrebbero voluto l’incontro dei corpi al primo appuntamento: un bacio, carezze e sesso. Non ho mai voluto mischiare il corpo con persone che fino a poche ore prima abitavano uno spazio sconosciuto. Ci voleva un minimo di frequentazione e conoscenza. Un minimo prima di mischiare le carni e verificare la chimica. 

Oggi non ho più modo di verificare in prima persona la dinamica d’assalto e respingimento, avendo la fortuna di essere in coppia. Ma raccolgo le confidenze di amiche che, single, sono in cerca dell’anima gemella sui siti d’incontro on line. Pare che il comportamento del maschio sia notevolmente cambiato. Se, e sottolineo se, alla fine del solito rito: nome, dove abiti, mi mandi la foto, fissano un incontro i maschi non osano, non replicano. Non vogliono corpo carezze toccamenti strusciamenti baci. Il tempo dell’incontro si consuma in racconti, in condivisione di esperienze. Cosa ho fatto io, cosa fai tu. La mia vita, la tua vita. Davanti a un aperitivo, a cena o pranzo, davanti a un caffè. Un incontro con una donna che può anche durare ore. Chiacchiere e cibo. Ma il maschio non chiede e non cede. Ha molte cose da fare. È superimpegnato. Il suo tempo libero ridotto in frantumi minuscoli. Così le mie amiche single inanellano molti incontri con molti uomini, senza seguito. Senza un lancio di un secondo appuntamento. Senza dover respingere assalti al primo.

Si dirà: le tue amiche non sono seducenti. Non sanno tessere i fili per imbozzolare l’uomo in fascino e desiderio. Non è così.  Credetemi. Ho amiche di ogni tipo. Anche le più civettuole ottengono il medesimo sconfortante risultato. L’uomo incontra e non dà seguito. Al limite manda su WhatsApp dei tulipani, per mantenere un contatto. O un bonjour o un bonsoir. Evidentemente le elezioni francesi hanno un loro influsso sul linguaggio. 

Ho visto un interessante trasmissione su RaiTre che trattava proprio il fenomeno: la progressiva inquietante de-virilizzazione del maschio. Analisi, ricerche, dati scientifici. Diminuzione del testosterone, dei peli, della fertilità… del desiderio sessuale.

I siti di incontro on line, oggi sono le nuove piazze e hanno sostituito – a mio parere purtroppo – lo struscio nelle vie cittadine e i luoghi di aggregazione. Oggi una donna single, un uomo single se vuole incontrare passa attraverso questi siti. Quantità e non sempre corrispettiva qualità. Mi chiedo: Non è forse anche questa sovrabbondanza a bloccare, paradossalmente a minare l’opportunità di trovare la persona giusta? 

Incontro una, cento donne. Non mi fermo con nessuna tanto so che davanti alla mia porta la fila è infinita. Dentro una, fuori l’altra: come nei provini. Alla ricerca di Fata Morgana ( la prossima potrebbe essere migliore della precedente ) non valuto fino in fondo quella con cui ora mi incontro perché sono già proiettato in quella che incontrerò domani. 

Può essere. I motivi dell’acchiappo ripetuto, compulsivo, inconcludente possono essere svariati. Di questo argomento ho già scritto anche leggendo e analizzando libri che trattano il tema dal punto di vista sociologico e psicologico. 

Sta di fatto che ieri sera ne parlavamo, ponendo sul tavolo le diverse ipotesi: per quale motivo alcune mie amiche dopo centinaia e centinaia di incontri sono ancora single? Alla fine è così difficile trovare un compagno, iniziare un rapporto? La quantità produce superficialità ed effetto fast food?