
Capita – in queste ore lunghe – di sfogliare blocchi quaderni fotografie disegni… e sempre nasce una sottile ombra nostalgica. Dov’ero, cosa facevo, come vivevo – emozioni e attimi – due mesi fa, un anno fa, dieci e più anni fa.
Le immagini scorrono e sempre penso, con meraviglia, a come tutto scorre passa ed è impermanente. Stiamo tutti scoprendo, come se ci avessero svegliato da un soporifero sonno, che non siamo immortali. L’hybris, l’arroganza di crederci simili a dei, è scomparsa all’arrivo dell’impensabile.
Mai avremmo creduto di non poter camminare, viaggiare, incontrare. E quindi anche solo sfogliare l’album fotografico sullo smartphone, ci ribalta in un tempo diverso: un tempo che era libero da decreti e certificazioni, che era senza limiti e controlli.
Eravamo liberi come l’aria di svolazzare ovunque ed ora ci troviamo chiusi in una gabbietta. Le piccole noie lavorative affettive o domestiche ci procuravano perfino attimi di malumori. Avevamo dimenticato la gratitudine in un cassetto insieme ai calzini.
Vedo un’altra me che passeggia con la macchina fotografica nei dintorni, nei paesini ameni, nei prati pieni di ranuncoli che quest’anno fioriranno senza di me. Vedo un’altra me distesa al sole dei duemila o a fare colazione davanti al lago. Vedo i miei schizzi e disegni di angoli che ora paiono irraggiungibili.

Ho sempre asserito di essere fortunata: mi alzo la mattina con il cinguettio degli uccellini nella pineta, sono circondata dal verde anche nei duecento metri intorno alla mia casa.
Ma questa catena che ci tiene è corta come quella di un cane legato alla cuccia. Anche l’albero dell’immagine, che è il mio albero, è troppo lontano perché io possa rivederlo. E mi manca.
Non mi manca lo shopping o lo struscio in città, non mi mancano i centri commerciali o i supermercati. Mi mancano i ranuncoli nel prato radura del paesino vicino e mi manca il mio albero.
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