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Attimi

Gabbietta

Immagine fotografica di Eletta

Capita – in queste ore lunghe – di sfogliare blocchi quaderni fotografie disegni… e sempre nasce una sottile ombra nostalgica. Dov’ero, cosa facevo, come vivevo – emozioni e attimi – due mesi fa, un anno fa, dieci e più anni fa.

Le immagini scorrono e sempre penso, con meraviglia, a come tutto scorre passa ed è impermanente. Stiamo tutti scoprendo, come se ci avessero svegliato da un soporifero sonno, che non siamo immortali. L’hybris, l’arroganza di crederci simili a dei, è scomparsa all’arrivo dell’impensabile.

Mai avremmo creduto di non poter camminare, viaggiare, incontrare. E quindi anche solo sfogliare l’album fotografico sullo smartphone, ci ribalta in un tempo diverso: un tempo che era libero da decreti e certificazioni, che era senza limiti e controlli.

Eravamo liberi come l’aria di svolazzare ovunque ed ora ci troviamo chiusi in una gabbietta. Le piccole noie lavorative affettive o domestiche ci procuravano perfino attimi di malumori. Avevamo dimenticato la gratitudine in un cassetto insieme ai calzini.

Vedo un’altra me che passeggia con la macchina fotografica nei dintorni, nei paesini ameni, nei prati pieni di ranuncoli che quest’anno fioriranno senza di me. Vedo un’altra me distesa al sole dei duemila o a fare colazione davanti al lago. Vedo i miei schizzi e disegni di angoli che ora paiono irraggiungibili.

Immagine fotografica di Eletta

Ho sempre asserito di essere fortunata: mi alzo la mattina con il cinguettio degli uccellini nella pineta, sono circondata dal verde anche nei duecento metri intorno alla mia casa.

Ma questa catena che ci tiene è corta come quella di un cane legato alla cuccia. Anche l’albero dell’immagine, che è il mio albero, è troppo lontano perché io possa rivederlo. E mi manca.

Non mi manca lo shopping o lo struscio in città, non mi mancano i centri commerciali o i supermercati. Mi mancano i ranuncoli nel prato radura del paesino vicino e mi manca il mio albero.

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Scrivere

Metti una benda 

Perché tu non puoi legarmi le mani e mettermi un bavaglio: m’escono dagli occhi le parole, come luminose frecce attraversano l’aria e s’infilzano sul puntaspilli. Perché non ho fili che misurano i miei pensieri, non ho tracciati di emozioni e di segrete verità. Come tu non hai elettrodi che portano il resoconto su un papiro di Egitto del deposito dei granai. Perché come gli artisti senza mani, che dipingono con lo strumento in bocca, non ci saranno ostacoli a frenare il desiderio di scrittura, il girovagare delle sinuose lettere che si accavallano a riva frangendosi sulla carne della carta.

Non smetterò di geroglificare le note del mio umore. 

Perché ci ho messo una vita a rompere le catene e le cavigliere, e i braccialetti son stati buttati in acqua: albergano tra i pesci e l’orologio col pavé finirà nella bocca di un vulcano. Nella incandescente lava si scioglieranno i diamanti. 

Perché non è il dovere che mi muove, il calcolo e l’opportunità. Il bilancino che misura il dare e l’avere col corpo in controluce che cammina oscillando sul bordo tagliente del ” si deve”. 

Non avrò padroni. Non avrò remore a muovermi agile e leggera nel campo aperto esteso e ampio del possibile. Non tolgo nulla al mio desiderio di te quando parto galoppando sul mio destriero alato. L’immaginare non toglie spazio al reale: lo amplifica all’infinito, invece. 

Se ti fa male la luce: metti una benda agli occhi. 

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Attimi

Dentro e fuori dalla linea di confine 

Nel cammino capita di ri-trovare luoghi dove gli incroci ti hanno portato un tempo. Eri lí, eri lí. Vedi il magnifico cancello di ferro battuto, intravvedi il magnifico parco con l’arco verde e lo sfondo azzurro del lago e sai che in un segmento della tua vita potevi essere dentro: padrona e signora.

Capita talvolta, per una giravolta del Fato, di essere o di qui o di là della linea di confine. Può essere un muro o una cancellata, un recinto di alte siepi che protegge la proprietà. Per un gesto di dadi gettati sei improvvisamente o dentro o fuori. La bellezza e stranezza del gioco fatale è non sapere mai, in anticipo, dove veramente saresti stata felice.

Cammini e sfiori con gli occhi i luoghi: sai che un tempo sei stata dentro, dentro il confine, nello spazio della Signoria. Eri una domina che dominava il parco, la piscina, il tennis. Ora sei fuori, cammini lentamente con uno zaino in spalle. Forse più libera e più felice.

Non è detto che stare dentro ti abbia donato pace, solo un effimero senso di potere. Il potere di chi sta nel recinto e può guardare quelli che camminano fuori con lo zaino in spalla. Il prezzo è la clausura nelle cento stanze a piangere lacrime amare.

Solo questi salti di prospettiva ti pacificano. Ormai sai che non è l’altezza e l’ubicazione della dimora a renderti felice. Puoi avere il parco con la darsena privata e il giardiniere e sentire il vuoto che ti appanna gli occhi. Puoi non possedere nulla ed essere in profonda pace per quel poco che vedi, e non possiedi, con gli occhi limpidi.

Quando la clessidra si rovescia, quel che scorre – da una parte o dall’altra – è solo finissima impalpabile sabbia.