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Storie

Una stanza di una casa

Questo un dettaglio di una stanza di una casa che ho abitato con Babu, che ora non c’è più. È morto in Russia più di una decina di anni fa. L’ho saputo da amici comuni. Dovevo andare anch’io a Mosca con Babu. In questi giorni che sono arrivati i mobili nuovi e ho fatto un po’ di riordino ho trovato uno dei suoi biglietti – che arrivavano da Mosca con grandiosi fiori – in cui diceva: – Non è colpa mia se ti amo. Perché poi a Mosca non ci sono andata e, anzi l’ho piantato quando è venuto a prendermi col colbacco. Povero Babu. Una vita da mitomane. Non gli ho creduto neanche quando é venuto anni dopo a dirmi che aveva una bimba piccola come la mia. Invece era vero.

Ritratto di Babu
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Frammenti

Spazio asfittico

Nello spazio asfittico annegano i ratti. I corpi rigidi col pelo duro.
Sono scesa. Mi aspettava accanto all’auto. Mi aspettava il centesimo cavaliere dell’armata persa: i condottieri senza destriero le lance spuntate gli scudi di latta.
Mi ha guardato: scarpa alta da femmina pantalone stretto gilé ciuffo sugli occhi.
I famosi occhi.

Sei più bella dal vivo che in foto.
Sono più bella viva.

Sono salita dopo aver valutato le spalle strette la testa senza collo la camicia nera da serata scontata.
Anche l’architetto vestiva total black.
Solo, dietro, sui pantaloni e sulla schiena della camicia delle strisciate bianche.
Sporco di calce vernice o coca.
Chi lo sa.

Comunque l’omino ha cominciato a parlare ininterrottamente.
I ratti agitano le zampine con il cellulare a immortalare l’ultimo divo.

Perché una donna come te é sola?
Sono una difficile.

L’uomo la tratta come una imbecille raccontando di sé.
Il solito strascico infinito di IO IO IO.
Narciso si specchia nell’iride della donna di turno che alloggia- momentaneamente- nell’abitacolo.
Brutto profilo.
Dimostra tutti gli anni forse di più.

Non c’è parcheggio. Hanno aperto i cancelli domenica sera c’è l’ora d’aria.
Tutti i carcerati mangiano pizza o gelato.

Lo guardavo raccontarsi. Lo guardavo splendere. Mi aveva spiegato chi era Darwin : era così trionfalmente sicuro che io non sapessi chi fosse.
Chissà le oche frequentate prima di me.
Le donne spiumate dalle gambe esposte sui tacchi di luna col rossetto lucido.
Le oche costrette a mostrare solo il proprio corpo perché il cervello é vuoto.

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Donne

Eletta

Eletta aveva festeggiato il suo compleanno con un affilato rasoio, come un boia accanto alla ghigliottina e con una tagliente cesoia – come un giardiniere pronto a sfoltire tagliare eliminare. Alla faccia della bontà della pazienza e della compassione.

L’arabesco – nell’architettura vendicativa – le era apparso in sogno la notte. Aveva la mente inquieta ed erano scesi giù avvoltoi. Coperta da leggeri e caldi piumini aveva affilato silenziosamente la lama.

La mattina ogni scena era da allestire con estrema accuratezza. Fotografare creare descrivere la femmina trabocchetto con qualche acconciatura stilistica. Avrebbe poi coperto la trappola con fresche frasche.

Quando tutto fu pronto, Elisa si vestì, si truccò e uscì.Nella caffetteria scelse per sè la poltrona trono, barocca, mentre la sua amica prese posto davanti al tavolino dove si posarono i caffè.

Stesero con molta cura il progetto, ogni dettaglio stabilito provato vagliato stabilito, ogni variazione considerata. Roberto sarebbe stata la vittima. Avrebbe pagato il suo pomposo inutile stupido cieco egocentrismo facendo la figura del fesso.

Non potevano neppure lontanamente immaginare che il loro piano non avrebbe mai funzionato, non perché fosse mal studiato. Perché Roberto non aveva coscienza e pensiero: nulla poteva turbare il suo cuore di cera perché battito non c’era. Roberto era senza anima senza volo senza pentimento rimorso senza sentimenti. Un buco nero coperto da un fantoccio. Una statua di sale.

Quando cadde nella trappola non si udì un sussulto. Non gli si scompose un ciglio.

Eletta e la sua amica non avevano considerato la variabile “essere non umano” nel loro ben congegnato piano.

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Attimi

Palazzo Mezzanotte

Che ci facevo a mezzanotte al Palazzo Mezzanotte non mi è dato sapere. Ma, per quegli stranissimi incroci del destino, ero là con il ragazzo col ciuffo sugli occhi e le nostre mani legate a battere il tempo del concerto jazz con un pianoforte di fronte all’altro.

Faceva caldo quella sera a Milano come fa caldo ora. Vampate di calore salivano dall’asfalto. Ma noi eravamo leggeri e felici. Di essere lì a battere il tempo insieme.

Quel ragazzo aveva un destino preciso nella mia vita. Aveva un compito che quella sera – nel Palazzo Mezzanotte – non avrei mai immaginato.

Era il mio Guerriero. Il Tagliatore di teste. Colui che recise con un colpo netto di spada il filo. La catena.

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Attimi

Lo sai cosa ci sta accadendo

Erano seduti sui gradini nella piazza con la lumaca di pietra. Incuranti del mondo, del sole, del luogo. In pieno amore.

Non si erano mai toccati. Non si erano mai detti, se non nelle minute e oblique grafie. Perché loro due si scrivevano lettere. Giocavano con le parole. Flirtavano attraverso la carta graffiata dalle penne. In piena era digitale, loro scrivevano con le stilografiche riversi sui fogli sotto la lampada.

Loro fuori da tutto e dal mondo – in un angolo tutto loro. Un angolo nascosto, pieno e turbolento di battiti e ansimi. Di desideri e segreti.

Erano seduti sui gradini e lui portava dei jeans azzurri come i suoi occhi.

– Sai cosa ci sta accadendo?

Lui aveva detto.

Lei si era voltata e l’aveva baciato.

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Attimi

Non amo ripetere

Troverei perfino divertente rotolarmi nel fango: esperienza energetica e liberatoria. Il fango non è sola bassa materia: è terra, la Madre Terra. Sembra proprio che lo spirito sia stato infuso nel fango con un alito di vita per ottenere ciò che siamo: anima e corpo.

Piove e non ho paura a camminare sotto la pioggia o entrare con le scarpe nella terra bagnata. O nelle fangose pozzanghere. È gioco.

Una sera ero a cena con un uomo “tutto d’un pezzo”. Assertivo e sicuro.

Marcava i suoi punti di riferimento ordinandoli nel catalogo mentale del suo privato territorio. Come dei comandamenti. Eravamo al secondo quando ha ricevuto una telefonata. L’ho sentito rimarcare all’interlocutore:

– Non c’è bisogno di ripetere tre volte la stessa cosa.

Mentre, a fine cena, lui si apprestava a gustare il gelato con mirtilli me ne ha offerto un cucchiaino. Avendo bevuto il caffè gli ho gentilmente detto: – No, grazie.

Imperterrito ha riproposto il cucchiaino dicendo:

– Assaggia.

Per la seconda volta ho risposto: No, ti ringrazio.

Il testardo incoerente allora me lo ha riproposto dicendo:

– Mangia!

Non ho risposto se non con un rapido gesto. Ho fatto volare con un movimento fluido e lieve il suo stupido cucchiaino ricolmo di mirtilli che ha effettuato una mirabile parabola finendo nel vaso dietro di lui in giardino.

Ho molto riso.

Il signor “non serve ripetere tre volte” si è offeso. Non ha gustato il gioco che ha rotto la rigidità della etichetta creando un flusso nuovo e artistico: alla Pollock.

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Storie

La bottega

Quando Emma era passata le prime volte, davanti alla villetta antica, si era chiesta perché c’era sempre gente che entrava o usciva. Normalmente con sacchetti.

Un giorno aveva guardato meglio al di sopra dei pochi gradini di pietra e aveva scoperto che, dietro la porta a vetri, s’intravedeva un piccolo negozio. Aveva così deciso di entrare per capire.

Dietro il banco c’erano due persone, piuttosto anziane ma dall’età indefinibile. Avrebbe scoperto, nel tempo, i loro nomi: Alda e Alfio.

Da allora, considerando la vicinanza di casa, decise che sarebbe entrata a prendere il latte e il pane. Era comodo.

Alda, ogni giorno le chiedeva, con una cantilena dolce:

– Che cosa vuole?

E lei, ogni giorno rispondeva:

– Due panini e mezzo litro di latte.

Ogni giorno, come se fosse la prima volta, la donna dietro il banco chiedeva la stessa cosa: Cosa vuole? e ogni giorno lei rispondeva allo stesso modo, dicendo quello che voleva. Sempre semplicemente due panini e mezzo litro di latte. A quei tempi questo rituale la faceva parecchio innervosire. Possibile che la negoziante non avesse capito che ogni giorno lei voleva esattamente la stessa cosa?

– Vuole altro?

-No.

Non aveva tempo da perdere.

Ancora Emma non sapeva che varcare quella soglia significava entrare in uno spazio in cui il tempo batteva un diverso ritmo. Il tempo si era magicamente fermato in quella bottega. Bastava guardarsi attorno: il frigorifero con il maniglione di ottone sulle pesante e vetusta porta di legno, il banco di marmo grigio su cui facevano bella mostra i formaggi scroscianti olezzanti e cadenti, e gli scaffali d’un tempo remoto: quelli dove riporre la pasta da vendere sciolta. Rigorosamente di legno.

Era una bottega rimasta ferma, pietrificata nel tempo, quando ancora non esistevano i supermercati e la gente comprava in posteria con la borsa della spesa e i cartocci fruscianti. Gli involti con l’azzurro della carta da zucchero.

Anni fa.

Da dove venivano quei due negozianti con il camice bianco, sempre dietro il banco di marmo con le mani ossute e precise sulla carta per avvoltolare l’etto di prosciutto, quei due personaggi che fissavano le pieghe con una cura maniacale: come se stessero facendo un origami?

Le persone, i clienti, normalmente in gruppi di tre o quattro, aspettavano nel quadrato della stanza, qualcuno inquieto e nervoso per i lunghi tempi di attesa. Qualcuno invece, abituato alle lunghe attese, si sedeva sulla seggiola di legno posta sotto i vasetti e raccontava la vita. Qualcuno era morto, qualcuno era nato, qualcuno era malato.

La minuscola bottega era sempre piena. Offriva poche cose, ma buone. L’affettato era ottimo, così come i formaggi e, per il resto, c’era di tutto un po’. Di tutto quello che può servire dal dentifricio ai lacci. Pochi pezzi di marca dai saponi ai liquori, dai biscotti al detersivo.

I due fratelli ( col tempo aveva scoperto che Alda e Alfio non erano marito e moglie ) memorizzavano come dei computer i prodotti preferiti da ciascun cliente. E, se per caso non c’erano, rimanevano male ( lo si poteva intuire all’espressione contrita ) e dicevano con un fil di voce:

– Nooo… è finito. Ma glielo facciamo trovare per domani.

Così il prodotto mancante era pronto nei giorni successivi. Se il cliente si dimenticava di averlo richiesto, era Alda che con tono gentile diceva:

-Sono arrivati i biscotti…

In quello strano negozio c’erano i “libretti”: il conto veniva segnato ogni volta che si prendeva qualcosa sulla piccola pagina color paglierino. A fine mese si pagava. Era incredibile notare la velocità con cui: prima Alda, e poi Alfio facevano passare il dito sulle cifre incolonnate per calcolare l’importo finale a mente. Veloci efficienti esatti. Le strisce delle cifre scritte con la biro blu scivolavano sotto l’unghia dell’indice per sintetizzarsi in un numero finale. La somma.

I due fratelli non chiudevano mai bottega. Erano aperti la mattina di Natale. Entravi dal cancello e dal retrobottega e potevi avere l’affettato fresco a Natale. Erano aperti a Ferragosto. Tutta estate. Sempre.

Alzavano la saracinesca alle sette di mattina, l’abbassavano alle venti. Il loro posto era la bottega. La loro vita era dietro il banco. Non si riusciva a immaginarli senza camice. Se Emma li vedeva per strada non li riconosceva.

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Ester

Lui mi chiamava la sua principessa e mi amava. Mi ha coperto le notti e i giorni di baci e carezze. Mi ricamava i capelli nel sonno e intonava lunghe storie cadenzate dalle nuvole. E quanto le nostre mani hanno seguito il vento delle sinfonie: quando avevo la lunga veste a calpestare l’umida erba. Aveva gli occhi verdi e una stilla di miele.

Poi sono arrivate le ore degli sputi e le sue lunghe dita stringevano il mio collo. Balli di botti e botte. Oceani di calci e pugni. Non potevo credere. Non potevo credere.

Noi dormivamo insieme e alcune mattine la mia faccia era blu indaco. Rosso rubino il cuscino.

Ora che il tempo ha voltato la sua greve pagina qualcuno ancora non comprende perché io poco resto nel fragile terreno dell’amore.