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Attimi Donne

Viola

Viola amava il viola, colore dell’introspezione nello spettro. Così le aveva detto l’omino al Corso con i barattoli allineati al centro dello spazio. Le scimmiette volanti erano corse a scegliere la tinta e, dopo averle fatte ruzzolare, con calma e senza entusiasmo Viola aveva scelto il viola. Un po’ di rosso un po’ di blu. Una mescolanza tra passione e mare profondo.

Era giù Viola. In cantina, mentre volevano metterla in vetrina. Il corpo magro ballava nei vestiti stretti. 

L’omino era così dentro la sua recita di maestro e artista, funambolo della parola: le scimmiette volanti succhiavano ogni parola e prendevano appunti. 

Nel gruppo c’erano pochi uomini. Uno di questi, un altro maestro di ego stratosferico, scrisse: Lo so che mi stai pensando.

Viola scrisse: Destabilizzata.

Al termine del Corso d’Arte lei si trovò improvvisamente contesa dai due omini dall’Ego stratosferico.

La lotta tra i due per averla durò molto tempo. 

Lei non capiva perché questa continua rivalità per averla in esclusiva. 

– Nessuno dei due uomini ama lei. – Così le spiegò lo psichiatra… – Si amano loro, e amano la guerra per avere la supremazia. 

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Arte Corpo

Il Maestro

Il Maestro aveva bisogno di corpi. Doveva dipingere una grande tela che sarebbe finita in una sala di un palazzo storico comunale. Voleva corpi nudi stesi per terra a creare un groviglio. Eva aveva già posato nel suo studio, ma da sola. Le chiedeva solo di stare in piedi nuda con delle scarpe rosse col tacco. Nulla di più.

A Eva piaceva compiacerlo perché amava il Maestro e i suoi lisci capelli che gli cadevano sempre sugli occhi freddi. Lo amava anche per la pelle morbida e bianchissima. Aveva un bel corpo il Maestro.

Quella sera non sapeva cosa sarebbe accaduto.

Le aveva detto solo : – Vieni a posare.

Poi erano arrivati tutti gli altri. Uomini e donne. Ragazzi e ragazze. In tutto erano una decina. Sul posto c’erano degli spot e poi ombra. Verticale la tela.

– Dovete mettervi per terra, distesi, uno accanto all’altro, come se tra voi ci fosse desiderio.

Eva era capitata fra due corpi maschili. Non riusciva a toccarli e non desiderava essere toccata. Il Maestro allora prendeva un braccio dell’uomo e lo appoggiava sulla spalla di Eva. Poi le diceva cosa fare: come mettersi e cosa toccare.

Così il Maestro aveva fatto per tutti, passando tra i corpi stesi a terra. Come fossero manichini tra le sue mani.

Ma non c’era pathos. Solo finzione scenica e freddo.

Il Maestro guardava. Metteva a posto, ma proprio non funzionava. Sulla tela non aveva ancora tracciato un segno. Se desiderava la passione, la passione quella sera non scaturiva. Forse sarebbe bastato che un uomo o una donna avessero dato il la. Ma nessuno si muoveva. Nessun corpo si accendeva.

Così, quella sera, la tela rimase bianca. Tutti si rivestirono stancamente e se ne andarono: ciascuno per la sua strada.

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Ethos

Un uomo antico

Lui era un uomo antico. Anche se viveva nel secolo digitale. Lui amava vedere vecchi filmati in bianco e nero del tempo che fu. Entrava nell’apparecchio televisivo, ne era inghiottito, non ne usciva più. Forse nostalgico del tempo quando si riponevano negli armadi i cappotti con la canfora nelle tasche. Una volta, da bambino, uscito da messa l’aveva trovata nella tasca del cappotto e, credendola un confetto, l’aveva messa in bocca.

L’uomo antico voleva accanto a sè una donna antica. Che gli servisse a pranzo e a cena, il piatto fumante sulla tavola ben apparecchiata, lui seduto con il bicchiere di vino rosso ( poteva sopportare e accettare che lei non avesse il grembiulino bianco e la crestina ). Non poteva sopportare che lei avesse un cervello e che parlasse. La sua mogliettina doveva servire e tacere: non aveva fatto lo stesso la sua cara amatissima madre? Lui era un nostalgico. Di quando l’uomo era rispettato, la moglie zitta e servizievole: l’aveva o no sposata? Che voleva di più?

L’uomo antico decideva: dove andare, quando andare e cosa fare. Quali programmi televisivi vedere. Che amici incontrare.

L’uomo antico dormiva. La mattina la moglie si alzava e faceva le faccende domestiche. Lui andava a lavorare e lei restava a casa. Lui tornava a pranzo e a cena e tutto doveva essere pronto. A tavola non si parlava. Lui era stanco e doveva vedere la tv. Ogni sera rivedeva impassibile gli spot pubblicitari e li commentava. Anche se li aveva già visti centinaia di volte e commentati centinaia di volte. La mogliettina sedeva accanto a lui con le tavole digitali e si immergeva in giochi virtuali. Lui diceva: Sei sempre con quegli apparecchi in mano. Avrebbe dovuto mummificarsi e guardare gli spot anche lei. Diventare una graziosa statua di cera sorridente. D’altra parte, non avendo cervello, non aveva di che lamentarsi nè poteva provare noia.

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Senza categoria

Il vuoto 

Umberto sostava nel silenzio accigliato.

Camminava avanti e indietro nella stanza. Non metteva musica. Non accendeva la televisione. 

Emily stava con il grembo languido sul divano. Ferma. Immobile. Il fragile fascino spento.

Dopo cena occorreva stare a tavola. Ascoltarlo mentre lui versava il vino, bicchiere dopo bicchiere, nel tempo senza orologi. Il cane dormiva. La tavola con la tovaglia cerata. Due piatti, due posate, due bicchieri. 

Poi fumavano. Emily aveva sempre freddo. Stare in quella casa le dava una sospensione di spilli. Avvertiva la tensione e non le riusciva sciogliere i nodi. Tra le ombrose ciglia le mancava una sciolta naturalezza. 

Umberto la gelava. Nella sala asettica, tutti i libri antichi a formare una catena di toni ambrati e azzurri, lui non la toccava mai. 

C’era stata una vertigine leggera solo una sera, mesi prima, quando Umberto per la prima e unica volta le aveva chiesto un bacio – sotto lo sguardo di gesso della luna di luglio. Aveva sentito il suo sapore e odore. 

Emily, quella sera, era tornata a casa con un sottile punto interrogativo tra le sopracciglia. Non poteva immaginare il gelo che ci sarebbe stato, dopo.

Umberto l’aveva voluta accanto nei mesi successivi. Sempre. Emily si chiedeva il senso: non riusciva a capire la distanza siderale che lui poneva: quando camminavano parlavano mangiavano. 

Umberto non poneva un gesto: uno sfioramento una carezza un bacio. Non la toccava. Si chiudeva nel guscio senza lanciare tentacoli e fili. Non la teneva.

Così ogni sera quando Emily tornava a casa nell’abitacolo della sua macchina danzavano le ipotesi e i propositi di fuga e vendetta. Non torno più- si diceva. Ma poi, quando lui il giorno dopo la chiamava, come una sonnambula lei tornava. 

Tornava nel silenzio immobile, ad ascoltarlo bicchiere dopo bicchiere, a stare con il freddo siderale, senza contatto, senza capire, senza senso. Tornava senza un motivo. Tornava a dare ascolto compagnia vuoto all’uomo che aveva bisogno solo di versare dire raccontare. 

Lei era uno specchio. Un vaso. Un posacenere. Un’anfora. Lei era il vuoto. 

Mu. 

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Il vicino 

Il vicino era schivo come un gatto. Appariva e scompariva come una bianca nuvola nel cielo terso. Arianna se lo trovava alle spalle, e solo il leggero scricchiolio della ghiaia smossa dal passo, la avvertiva della sua presenza. Il vicino camminava sempre con il suo grigio e algido cane nordico, al fianco destro.

Non si sedeva mai nei punti di ristoro del piccolo paese o su, al rifugio. Il vicino era sempre in movimento. Come una linea cinetica. Sempre in cammino. Una freccia lanciata verso un lontano bersaglio. Guardava davanti con uno sguardo fiero. Difficilmente salutava. Mai si fermava.

Arianna lo poteva inquadrare immobile e finalmente fermo solo la sera: quando il sole inondava la casa di fronte, lui stava sul terrazzo a dorso nudo a bersi gli ultimi raggi. E Arianna se lo gustava: spiandolo dalla finestra della sala, ormai in ombra. 

Lo pensava scrittore o musicista, comunque artista. Le poche rare volte in cui aveva incrociato il suo sguardo aveva notato una luce curiosa e instabile. 

Lui abitava da solo nella grande casa, di fronte a quella dove anche lei stava da sola. Arianna pensava che sarebbe bastato un balzo. Un filo sospeso su cui camminare con l’ombrellino aperto per catapultarsi sul suo terrazzo. Oplà:eccomi qua.

Doveva trovare un modo per stare di fronte a lui, con lui, e capire. Saltare la staccionata dei si deve/non si deve, è opportuno/non è opportuno, è bene/è male, è lecito/è illecito. Sospendere solo un momento il peso gravitazionale e volare. Incrinare il guscio dialino con una fulminea crepa. 

Troppe volte si erano incrociati visti passati accanto senza muovere un muscolo del viso, come trasparenti. Lei faceva colazione al tavolino del rifugio e lui scendeva dalle vette. Non la guardava. Se, qualche volta, lei lanciava sulla traiettoria un “Buongiorno” allora il vicino si voltava un istante per rispondere al saluto. Arianna sapeva che anche lui avrebbe voluto sapere. La reciproca curiosità li teneva. 

Era giunto il momento di agire.

Così quella sera, quando il buio avvolse con il suo lungo manto la strada, e lui uscì per l’ultima passeggiata serale con il suo cane lei, semplicemente, lo seguì. 

Alla fine dell’asfalto la strada saliva nel fitto bosco. Fu lì che lei, rompendo il silenzio, con voce chiara disse : – Posso fare un pezzo di strada con te? Vorrei parlarti. 

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Scrivere

INCONTRO

Lo sguardo fu una lamina di fuoco. Accadde.

Nella piazzetta dei balconi fioriti, dalle pareti affrescate con le vergini, tra il passaggio di incuranti e lente ombre.

Si videro e si riconobbero. Dalla chioma leonina, la faccia tersa e gli occhi verdi. Dall’andatura gitana, sciarpa serica e pantaloni alla cavallerizza. Diversi tra eguali. 

Si sfiorarono, si guardarono. Una frazione d’attimo. Il tempo minimo necessario alla muta intesa: perché ciascuno s’inchinasse all’altro.

Poi, sbalzati d’improvviso lontano sulla giostra del tempo e altrove. Dove il ruolo imponeva il come. Sudore freddo. Sbandamento e vertigine. 

Così si riconobbero e si videro. 

S’inchinarono muti al trasalimento.

Poi, ciascuno proseguì il suo cammino senza voltarsi.