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Si fletteva

Si fletteva con noncuranza sotto lo sguardo acuto dei passanti. Volava veloce sulla traiettoria tra linee cinetiche guizzanti. Le piaceva diventare proiettile e andare dritta allo scopo. Essere un punto luminoso nel diffuso grigiore cittadino. 

Era solo corpo ( mentre mordevano l’asfalto i passi ). Un attimo inafferrabile: solo qualche artista neo futurista avrebbe potuto eternizzarla tra spicchi e diagonali zigzaganti.

Chi tu sia. 

Chi tu sia: angelo o demonio, fuscello al vento o vigoroso tronco. Tu busserai: tre colpi discreti, alla mia porta. 

Uno stretto spiraglio ti attraverserà l’occhio nel mio privato spazio. Forse un lembo di stoffa, una scarpa rossa o un petalo screziato d’orchidea solenne. Forse una sedia così stracolma dei tessuti con il mio profumo. 

Tutto accadrà in una nuvola di sabbia. I serpenti giaceranno immobili e spiraliformi nel fondo della pietra. 

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Amicizia

In amicizia, come in amore, sono esigente. Non mi accontento del primo che passa, pur di non stare sola. So stare sola. Anche giorni settimane mesi. 

In amicizia, come in amore, la nostra possibilità di scelta alla fine non è così illimitata e potente. L’amore accade, così come l’amicizia accade. Intendo dire che nel ventaglio dei possibili ci si imbatte, chissà perché, in alcune persone e non in altre. 

La stessa scuola, strada, quartiere, cittadina, i figli che frequentano i medesimi corsi. Molteplici sono i motivi per cui si incontra una persona che è destinata a diventare amica. Le mie amiche le ho trovate studiando, sul posto di lavoro, e al bar che frequento. Alcune di queste le ho perse per strada, altre le ho volutamente lasciate per sempre.

Per sempre perché non sostengo a lungo gelosia e invidia. Accetto, sostengo, scelgo la sostanziale diversità caratteriale tra me e le amiche; accetto che il loro modus vivendi sia sostanzialmente molto diverso dal mio; tollero momenti di assoluta leggerezza e vacuità: ho un’amica che mi parla ore e ore di feste e gossip. Ho imparato, nel tempo, che è bene esercitare molto rispetto verso l’altro e la sua storia. Anche se sepolta da maschere quotidiane. Ho imparato a riconoscere le piccole bugie senza battere ciglio. Ho imparato a tacere, accogliere, godere del tepore di un momento con un’amica. 

Negli ultimi anni ho chiuso definitivamente con due amiche. Una è riapparsa per caso in una passeggiata. Era con suo marito che aveva avuto una grave malattia. Abbiamo scambiato poche chiacchiere perché io non ero da sola. Poi, la sera, mi è sembrato cortese mandare un semplice messaggio per augurare salute e serenità: ero stata colpita dallo stato del marito. 

L’amica mi ha telefonato subito e ha svuotato tutta la sacca del suo mondo su di me. Ha parlato della sua via crucis. Della miracolose cure che lei e suo marito hanno avuto dalla sciamana di turno… Ho chiesto come stava il figlio, il marito e la sorella. Tutti i parenti stretti. Lei non mi ha chiesto nulla. Nulla di nulla. Erano due anni che non parlavamo. Nulla. 

Dopo aver vomitato tutto il suo mondo, lei che frequenta la chiesa con tutte le cerimonie annesse, non ha allungato una mano, non si è sporta un attimo dal suo privato balconcino per sapere come stavo: io e i miei familiari che bene conosceva e frequentava ai tempi della nostra amicizia. Mia madre, per esempio. Non una semplice domanda: Come sta tua madre?

Non c’è niente da fare. Ha rinforzato, con questa egocentrica telefonata, la scelta di troncare. Chiudere. Eliminare. Serrare porte e finestre. Che senso ha? 

Dovrei raccontare tutto l’antefatto. Dovrei andare indietro nel tempo e spiegare cosa è accaduto per esempio nelle due vacanze che abbiamo fatto insieme. Perché la prendevano per mia madre ( abbiamo la stessa età ); perché suo marito mi ha detto che sono stupenda. Perché ogni volta che parlavo di affetto, d’amore lei scostava il viso, cambiava discorso. Non ascoltava. Perché quella volta che sono andata a prenderla per una passeggiata e non ero da sola, lei nulla ha chiesto. 

Scrive Cicerone: 

L’altra opinione è quella che limita l’amicizia a una parità di doveri e di voleri. Questo in realtà è un ridurre troppo meschinamente e grettamente l’amicizia a un semplice calcolo, per modo che il bilancio del dato e del ricevuto sia in pareggio. 

Da: L’amicizia

Nessun calcolo quindi, ma neppure solo dare dare dare per ricevere solo sguardi obliqui. 

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C’è chi affoga 

C’è chi affoga nel fare fare fare. Come una formichina intenta a trasportare grossi chicchi e andare andare andare sotto un peso così greve. Il suo solenne compito, il suo istinto, il fine. Tutto il tempo a girare accumulare cercare immagazzinare. 

Io amo star ferma. 

C’era un uomo immobile a guardar lo scorrere dell’acqua. – Che sta facendo? Mi ha chiesto il mio compagno di cammino. Sta meditando – ho risposto. 

Esula dal suo mondo il meditare: il mio compagno di cammino ha sempre qualcosa da fare. Non sa semplicemente sostare. Gli ho detto che dovrebbe imparare a star fermo un’ora senza far nulla. – A che scopo? – mi ha chiesto. 

Saper star fermi nel nulla insegna ad acquietare quella parte ansiosa e instabile che non trova pace se non fuori. Star fermi vuol dire star bene dentro. Senza macchine esterne, senza oggetti  e aggeggi. Senza collegamenti, fili, apparecchi. Spenti gli schermi, i filtri, gli obiettivi fotografici. Fuori dal mondo per un’ora. Dentro il nostro mondo. 

Fare silenzio. Non avere collegamenti voci consensi applausi discussioni rumori. Saper stare un’ora nell’ozio. Senza leggere scrivere camminare incontrare comprare valutare giocare studiare. Questa bolla di nulla – apparentemente priva di scopo – ci permette di creare. Le migliori idee saltano fuori da questi attimi di sospensione. I creativi lo sanno. 

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Nulla ho da fare 

Quando il tuo muto cane

a terra

esausto dorme

e io vado oltre il recinto

a respirare il nulla,

distesa tra libri e penne

nell’ozio che m’avvolge,

tu mi chiedi perché

– qual è l’impegno

che mi prende:

nulla ho da fare.

Null’altro che sostare 

esausta e muta

– come il tuo cane –

distesa e calda 

di odore e sonno

tra le mura e le mie cose.

Tra pennelli e cenci

e fogli di carta.

Tra pagine fittizie

e bianche tazze 

nel silenzio del quartiere

che m’assorbe.

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Un romanzo per Piperno

Veramente interessante l’articolo di Alessandro Piperno sulla Lettura: “Che talento, questo Amoz Oz”.

Mi è piaciuto perché parla di un libro e dell’effetto che può procurare la lettura di un romanzo in una giornata storta.

Mi è piaciuto perché c’è dentro, nel sottosuolo dell’argomento, tutto l’amore che uno scrittore può provare per il corpo di un libro, corpo da accarezzare, toccare, sentire come quello dell’amata.

Testualmente: “Ecco, il libro è finito. Lo chiudo soddisfatto. Riscatta una giornata così cupa e inutile. Stento a riporlo come accade sempre con i pochi libri che abbiamo amato. Lo carezzo come un peluche”.

Con i pochi libri che abbiamo amato.

Pochi, rispetto al mare all’oceano di libri che leggiamo. Chissà perché solo pochi ci toccano così intimamente da trasformare persino l’umore. Meravigliosa capacità terapeutica della buona scrittura. 

Così una sera torno a casa con l’umore sotto i tacchi. Alle spalle una di quelle giornate bigie disseminate di intralci che rendono la vita faticosa, opprimente e insensata”. 

Faticosa, opprimente e insensata. Capitano giornate così. A volte grigie anche senza intralci. Ci si sveglia già con l’umore greve. Senza sapere perché.

Non serve fare zapping, nè fare una calda doccia, nè gustare una buona cena. Solo la lettura di un ottimo romanzo può sollevarci in un altro strato atmosferico. Portarci altrove, dove sfumano – per incanto – le nostre inutili noie. Siamo dentro un’altra storia, qualcuno silenziosamente ci prende per mano e ci porta a sentire vedere un nuovo panorama. 

” In un attimo ecco svanire malumore, spleen, senso di gratuità. Mi rilasso, mi diverto, mi entusiasmo. La cosa più bella, mi dico, è come tratta il tempo e lo spazio. Tutto vola via delicatamente”. 

Così è anche per me quando, finalmente, trovo un romanzo che mi piace.

E per voi? 

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E dunque nevica 

E dunque nevica

in questa nuova primavera

così sbocciata nel verde tenero

tra le bianche ciglia dei piccoli anemoni.

L’uomo rapace

mi ha condotta in volo

fino al nido – tra calde piume.

Il sonno m’ha avvolta

nell’oblio perpetuo.

C’è una pace solenne 

senza rimorsi e rivalse:

tutto il tappeto d’astio

ora è coperto dallo strato bianco.

Oggi il silenzio ha un canto nuovo

il respiro si fa culla 

tra gli avanzi del vento 

– che ieri rovinava. 

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La bimba allontana

La bimba allontana e tira a sé il rocchetto. Impara così – attraverso questa figura fondamentale descritta dalla psicoanalisi freudiana – a sostenere la distanza dalla madre, dal seno materno. Non c’è e c’è.

Ci sono donne che non smettono mai di tirare il filo per verificare se l’altro c’è. Tirano all’estremo il filo per vedere se si spezza o l’altro torna vicino. Allontanano e riprendono. É un gioco elastico e dinamico. Perenne e stancante, sfibrante. 

Ci sono uomini che si accorgono della donna solo quando é distante, il rocchetto allontanato.

Quando sono sul punto di perdere la donna, corrono si attivano si svegliano piangono supplicano. Quando hanno la presenza costante, acquietante, quotidiana si dimenticano: la ignorano, non hanno cura, attenzione, garbo. 

Giochi antichi di seduzione e separazione in atto da secoli. 

Ti accorgi di qualcosa quando manca: salute, cibo, sole, denaro, serenità.

Ti accorgi di una donna quando ti tradisce, quando parte, quando ti lascia. 

Peccato, vero peccato, che nel tempo della vicinanza non c’è stato un complimento, un invito, un abbraccio, una sorpresa. Peccato che sei stato distratto. Peccato che hai sbadigliato quando ti ha detto spiegato chiesto. Peccato che le hai dato la schiena, le hai negato il tempo, un’attenzione, un sorriso.
Freud osserva il gioco del nipotino Hernst ( il gioco del rocchetto ), e arriva a formulare ulteriori riflessioni sul gioco come strumento trasformativo e quindi evolutivo per il bambino.

Il bambino teneva un rocchetto legato ad un filo, lo gettava oltre la spalliera del lettino fino a farlo sparire, per poi ritiralo a sé esultando.

Il rocchetto, secondo Freud , mostra la possibilità per il bambino di riparazione, e quindi di trasformare un’esperienza dolorosa e frustrante ( come l’assenza della madre ), in un’esperienza controllabile, che gli permette di reggere la separazione e la solitudine”. 

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INCONTRO

Lo sguardo fu una lamina di fuoco. Accadde.

Nella piazzetta dei balconi fioriti, dalle pareti affrescate con le vergini, tra il passaggio di incuranti e lente ombre.

Si videro e si riconobbero. Dalla chioma leonina, la faccia tersa e gli occhi verdi. Dall’andatura gitana, sciarpa serica e pantaloni alla cavallerizza. Diversi tra eguali. 

Si sfiorarono, si guardarono. Una frazione d’attimo. Il tempo minimo necessario alla muta intesa: perché ciascuno s’inchinasse all’altro.

Poi, sbalzati d’improvviso lontano sulla giostra del tempo e altrove. Dove il ruolo imponeva il come. Sudore freddo. Sbandamento e vertigine. 

Così si riconobbero e si videro. 

S’inchinarono muti al trasalimento.

Poi, ciascuno proseguì il suo cammino senza voltarsi. 

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Cucire la vendetta 

Non ancora aperte le imposte: che il tempo stia fuori con l’orologio che batte. Occorre cucire la vendetta. Confezionare la veste con temperato furore. Abbattere la dozzinale baldanza del cavaliere. 

Campane a festa. La luce si espande sulla coperta. 

La sera prima era uscita per un ridicolo abbaglio. L’uomo era così piccolo e non solo di statura. Aveva mani tremanti, lo osservava incalzandolo con domande. Poi, lo ascoltava con un sorriso taciturno. 

In ogni fuga si profilava l’impossibilità del sogno. Avrebbe solo desiderato ridere e sciogliere i capelli. Qualche nota di gaiezza oltre la torbida macchia. 

C’era una sorta di crudeltà compiaciuta nella sua sottile analisi. Il cuore non batteva. Nessun timore e tremore. Quando se ne andava per i vialetti tortuosi nessuno sapeva inseguirla. 

Camminava sbrogliando l’enigma. Provava piacere, odiava la calma piatta. 

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I viandanti sciamavano


I viandanti sciamavano tra rami fioriti. Il sole era ancora alto. Nulla le opprimeva il cervello. Nel passo elastico cercava quadrifogli nell’erba tenera. 

Lo zero assoluto della mediocrità era tracimato, così lei aveva chiuso porte cancelli e finestre. Non permetteva svolazzi agli inutili accessori. La infastidivano. Nel primo pomeriggio aveva accuratamente rotto, in piccoli frammenti, un’antica agendina. Teneva tracce stanche desuete rovinose del giá stato. Aveva poi buttato i pezzi nel contenitore della carta straccia. 

La bonifica della casa durava ormai da anni. Non era ancora terminata. Lui aveva disseminato ovunque i suoi ” ti amo “. Con la sua nera calligrafia rapace. Con un gesto insofferente aveva strappato l’ultimo reperto fossile. 

Nel tragitto in auto aveva scorto una scritta con il suo nome corto, con la O a forma di cuore così come lui, per vezzo grafico, amava scrivere. I piumati predatori lasciavano traccia ovunque del loro ostinato volo. 

Tornata a casa c’era odore di muschio e vaniglia per via dell’incensiere. Ogni tanto, come una fastidiosa mosca, arrivava il pensiero della tetra idiozia del suo passato amore. Del goffo tonfo nella caduta. 

Il tema del doppio la lambiva perennemente. Sbucciò una mela.