La donna dagli occhi di tigre camminava con passo felpato sul filo di confine.
Non sapeva dove deporre il pezzo che le brancolava dalla bocca: se nel lembo di terra nera o nella zona bianca lattiginosa.
Intanto il pezzo variava di colore così che pareva non averne uno proprio stabile.
Alla donna sarebbe servito un qualsiasi appiglio per definire l’ordine classificatorio sulla grande scacchiera.
Il cielo lacrimava incessantemente. La donna dagli occhi di tigre osservava muovendo il capo un poco a destra, un poco a sinistra.
Incapace di scegliere dove deporre il pezzo: in quale campo e ruolo definirlo e finirlo.
L’entrata era ermeticamente serrata e i cardini da tempo s’erano fusi con il legno. Il tempo li aveva resi compatti e statici. Sembrava impossibile destarne il sommesso cigolio.
La porta di accesso al salone era da tempo inviolabile. Impenetrabile. Forse neppure una testa d’ariete avrebbe potuto sfondarla, squarciarla.
Se così fosse successo sarebbe finalmente entrata luce a dipingere il polveroso pulviscolo del presente, svelando finanche le remote forme del passato.
La donna dagli occhi di tigre era inquieta: aveva un pezzo nuovo da collocare in una zona ancora da decifrare. Non tutto poteva essere catalogato. Qualcosa sarebbe rimasto nell’informe ammasso simbolico dal significato non univoco.
E l’uno e l’altro.
E bianco e nero.
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