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Allegoria, Metafora,

E bianco e nero

La donna dagli occhi di tigre camminava con passo felpato sul filo di confine.

Non sapeva dove deporre il pezzo che le brancolava dalla bocca: se nel lembo di terra nera o nella zona bianca lattiginosa.

Intanto il pezzo variava di colore così che pareva non averne uno proprio stabile.

Alla donna sarebbe servito un qualsiasi appiglio per definire l’ordine classificatorio sulla grande scacchiera.

Il cielo lacrimava incessantemente. La donna dagli occhi di tigre osservava muovendo il capo un poco a destra, un poco a sinistra.

Incapace di scegliere dove deporre il pezzo: in quale campo e ruolo definirlo e finirlo.

L’entrata era ermeticamente serrata e i cardini da tempo s’erano fusi con il legno. Il tempo li aveva resi compatti e statici. Sembrava impossibile destarne il sommesso cigolio.

La porta di accesso al salone era da tempo inviolabile. Impenetrabile. Forse neppure una testa d’ariete avrebbe potuto sfondarla, squarciarla.

Se così fosse successo sarebbe finalmente entrata luce a dipingere il polveroso pulviscolo del presente, svelando finanche le remote forme del passato.

La donna dagli occhi di tigre era inquieta: aveva un pezzo nuovo da collocare in una zona ancora da decifrare. Non tutto poteva essere catalogato. Qualcosa sarebbe rimasto nell’informe ammasso simbolico dal significato non univoco.

E l’uno e l’altro.

E bianco e nero.

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Allegoria, Metafora,

Tartaruga 

È che, sotto il carapace, c’è una pelle tenera trasparente senza difese. 

C’è che di cacciatori predatori assalitori ne ho conosciuti troppi. 

C’è che l’educazione e il rispetto non sono parole più in uso in questa giungla artificiale. 

C’è che mi manca una carezza dopo essere stata scorticata ribaltata buttata nell’acqua bollente. 

Cibo prelibato: lo so.

È che tutti si presentano col sorriso, ti coprono di fiori prima di far di te un tavolino.

È che – senza il mio guscio – mi sento nuda ed esposta.

È che sono, alla fine, affettuosa. Non mordo la mano che mi passa la verzura.

È che non sopporto le scarpe lucide e le mani lorde.

È che, camminando lenta e vivendo molto, ho imparato a sentire gli odori, i sapori e i lezzi.

È che, passo dopo passo, il mio guscio è stato imbrattato, calpestato, battuto.

È che, sotto il mio tetto, sento forte i passi.

È che…