
Un po’ di tempo fa, una persona che ha letto pagine di un mio testo in prosa ha commentato:
– E poi che significato hanno gli “a capo”?
Evidentemente quel novello critico non aveva letto Joyce: a pagina 249 dell’edizione Mondadori dell’Ulisse in alto, nell’ampio spazio bianco della pagina, ho scritto: A capo!
Perchè tutta la pagina è composta così:
Bronzo accanto a oro udirono i ferrei zoccoli, acciaisonanti.
Impertnt tntntn.
Schegge, levando schegge dall’unghia rocciosa schegge.
Orrore! E oro arrossì ancora.
Una nota roca di piffero la sboccò.
Sbloccò. Bloom blu è la patina sul.
Aurea chioma ingugliata.
Una rosa danzante su serici seni di raso, Semiramide.
Trillante, trillante: Ahidolores.
(…)
Un pedante critico avrebbe perfino fatto notare a Joyce che, per esempio: “Ahidolores” non si scrive così.
Come osa: tutto attaccato, senza lettera maiuscola e via dicendo… Ahi, Dolores!
Ma a Joyce, come ho già scritto e quindi evito di ripetermi così non annoio, amava “giocare con il linguaggio” in modo rocambolesco.
E quindi cinquanta pagine più avanti scrive questo :
Nationalgymnasiummuseumsanatoriumundsuspensoriumordinariprivatdocenteneralstorispecialprofessordoktor Kriegfried Ueberallgemein.
Tutto attaccato. Parola lunghissima che non esiste.
Borges ne “La superstiziosa etica del lettore” scrive:
“Coloro che sono affetti da tale superstizione intendono per stile non tanto l’efficacia o l’inefficacia di una pagina, bensì le abilità apparenti dello scrittore: i suoi paragoni, la sua acustica, gli episodi della sua punteggiatura e della sua sintassi. Sono indifferenti alla propria emozione: cercano tecnicismi che li informeranno se lo scritto ha il diritto o no di essere loro gradito”.
Se dovessimo leggere un testo badando a questo ( se cioè un testo è a noi gradito), quanti segni rossi e blu dovremmo mettere nel testo dell’Ulisse di Joyce?
Si permette ogni cosa il signore Joyce. Compreso di non terminar le frasi o di scriverle a rovescio. È uno dei motivi per cui adoro Joyce ed è il medesimo motivo per cui molti non lo apprezzano. Questione di stile. C’è chi preferisce uno stile piano, senza discese ardite e risalite…
Si dirà che la metrica in poesia è altra cosa. In questo campo illustri poeti sono riusciti a sovvertire ogni regola e a darci, nel contempo, liriche stupefacenti. Il poeta può. Dopo Joyce, e altri illustri, ogni scrittore può.
“Questa vanità dello stile si dilata in un’altra patetica vanità, quella della perfezione. Non c’è scrittore metrico, per quanto casuale o nullo sia, che non abbia cesellato il suo sonetto perfetto, monumento minuscolo che custodisce la sua possibile immortalità. (…) La pagina perfetta, la pagina in cui nessuna parola può essere alterata senza danno, è la più precaria di tutte.
I mutamenti del linguaggio cancellano i sensi secondari e le sfumature; la pagina perfetta è quella appunto che poggia su tali delicati valori, quella che più facilmente si sciupa”.
Borges
La pagina perfetta si sciupa. Si decompone, svanisce. Le pagine migliori sono le più imperfette non dal punto di vista ortografico ( chi sa scrivere rispetta le regole della nostra lingua e si ricorda che qual è non vuole l’apostrofo per esempio) ma le più imperfette dal punto di vista stilistico. Quelle che rimangono stupefacentemente attuali e nuove nonostante la patina del tempo.
Per sovvertire le regole e permettersi rivoluzioni occorre conoscere le regole. Così come Picasso conosceva le arti della pittura nel suo periodo blu per poi scomporre figure e solidi diventando cubista.

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